Attaccato a Silvio Berlusconi per non perdere le regioni del nord. E appeso alle strategie di governo del Partito Democratico per non andare a elezioni a giugno. È la situazione di Roberto Maroni, segretario della Lega Nord, neo presidente di regione Lombardia, che in via Bellerio, sede del Carroccio, alcuni definiscono come «un uomo arrabbiato e molto preoccupato».
Del resto, neppure il tempo di festeggiare l’insediamento al Pirellone e Bobo si ritrova già in una delle situazioni più complesse nella storia del movimento leghista. Il punto è questo. Il Carroccio non vuole andare a elezioni anticipate nel breve periodo. Ha bisogno di tempo. Almeno uno, meglio due anni, ancor meglio cinque. Sa che elezioni in estate, senza il traino del voto lombardo, porterebbero la Lega a un livello di voti ancora più basso delle ultime
Poi ci sono da risolvere le questioni interne, tra i mal di pancia di Umberto Bossi e le faide venete contro Flavio Tosi. Non solo. In Veneto le indagini della magistratura continuano e lambiscono la giunta di Luca Zaia. Mentre in Piemonte le avvisaglie di crollo della giunta di Roberto Cota sono all’ordine del giorno. Caduta doppia che significherebbe un addio prematuro ai sogni della macroregione del Nord. Soprattutto Bobo sa che in cassa di soldi per una nuova campagna elettorale, dopo l’ultima in Lombardia, ce ne sono davvero pochi.
Per questo motivo, il governatore continua a ripetere un giorno sì e un altro anche la stessa considerazione: serve un governo. Che oltre a dare risposte sulla crisi economica, salvi pure la Lega dal tracollo. Nelle ultime settimane il Carroccio ha parlato quasi con tutti. Dal Pdl con cui è alleato fino al Partito Democratico di Pier Luigi Bersani. L’idea di un dialogo con i democratici per costruire un governo (ipotesi Monti-Pd-Lega ndr) è ancora lì sulla carta.
A gestirla sono Miro Fiammenghi e Alberto Pagani, uomini di Vasco Errani, il governatore dell’Emilia Romagna che prima o poi potrebbe lasciare la seconda regione più ricca d’Italia per arrivare a palazzo Chigi magari come sottosegretario. Il Carroccio ha fatto delle richieste, dalla presidenza stato regioni fino ad alcuni posti in commissione, oppure ancora provvedimenti per favorire la macroregione e il federalismo fiscale.
La cosa, però, non è andata giù a Silvio Berlusconi – sotto scacco della magistratura – che ha intravisto un complotto di Pd, Lega e centristi per farlo fuori. Il Cavaliere avrebbe così minacciato di staccare la spina alle tre regioni del Nord. E avrebbe sguinzagliato anche Bossi che alzando la voce ha definito Maroni uno «con il culo largo».
In questo contesto nasce la contromossa di Maroni delle ultime ore: andare alle consultazione al Quirinale insieme con il Popolo della Libertà. «Noi siamo in coalizione col Pdl per cui non faremo nulla che sia contro la coalizione» ha detto Maroni presentando la nuova giunta lombarda «concorderemo tutto: detto ciò come governatore della Lombardia voglio un Governo che mi dia risposte».
In sostanza, al momento, l’unica ipotesi di un governo sostenuto anche dalla Lega è legata alle intenzioni di Berlusconi. Se il Cavaliere trovasse una soluzione indolore per sé, allora Maroni potrebbe starci. In caso contrario la Lega si atterrebbe alle decisioni del Pdl e si sfilerebbe da qualsiasi trattativa.
Di “patti con il diavolo” in vista tra Lega e Pd quindi non ce ne sono. Sul tavolo, però, c’è stata un’altra offerta da parte del Carroccio a Bersani. Gliel’ha formulata sempre Maroni durante un incontro nei giorni scorsi. Riguarda il voto di fiducia al senato che Bersani potrebbe chiedere dopo le consultazioni con il presidente Giorgio Napolitano e il mandato esplorativo. La proposta è questa.
Nel caso in cui Bersani riuscisse a comporre un governo, i senatori della Lega Nord potrebbero uscire dall’aula nel giorno della richiesta di fiducia e in questo modo permettere l’abbassamento del numero legale (a palazzo Madama il regolamento è diverso da quello di Montecitorio ndr), ma comunque la maggioranza al segretario del Pd. Il gioco a incastri è delicato. Per alcuni una strada troppo stretta. Perché deve tenere conto di diverse, troppe variabili, tra cui l’appoggio dei montiani al progetto dei democratici, la presenza in aula di Pdl, del Movimento Cinque Stelle e comunque altre defezioni negli altri partiti. Ma Maroni ha detto di essere disponibile.
Bersani e i suoi sono convinti che basterebbero 145 senatori per avere la fiducia di un governo di minoranza. E 17 senatori della Lega rientrebbero, tra gli altri, che dovrebbero uscire per raggiungere la fiducia, anche se i numeri sono molto risicati e le controindicazioni troppe. Ma in questo modo il capo dello Stato affiderebbe l’incarico al leader del partito di maggioranza (ma non è obbligatorio) per formare un governo che già in partenza non può contare su una maggioranza politica né numerica.
La durata sarebbe magari di uno o due anni nel modello di quello del 1976 di Giulio Andreotti. Il problema, però, che all’epoca tutti i partiti erano d’accordo. Oggi non proprio. Anzi, per niente. Tanto che Gaetano Quagliariello, capogruppo del Pdl al Senato, ha già annunciato che uscirebbero anche loro dall’aula, in blocco, facendo così cadere il numero legale. Ma Maroni deve continuare a trattare. Il 7 aprile c’è Pontida. E ai militanti si dovrà pure raccontare qualcosa di convincente per festeggiare.