«Non vedo personalità per un Governo del Presidente»

Parla il politologo di Bologna

Formula “Crocetta” o “governissimo” del Presidente? Un esecutivo di minoranza guidato da Pier Luigi Bersani e appoggiato dai parlamentari Cinque Stelle legge per legge, tema per tema, con un ruolo nevralgico e determinante del movimento capeggiato da Beppe Grillo? Oppure una compagine designata dal Capo dello Stato e composta esclusivamente di personalità estranee ai partiti ma bisognose del supporto decisivo di tutte le formazioni politiche tradizionali? Sembrano questi, per ora, gli scenari possibili e più realistici nella fase travagliata che dovrebbe preludere alla formazione del nuovo governo.

E oggi il segretario della Cgil, Susanna Camusso, parlando nella trasmissione In mezz’ora di Lucia Annunziata ha detto di essere più favorevole a un governo del Pd con il M5S piuttosto che a un governissimo o a un esecutivo tecnico, «perché il risultato delle elezioni dimostra che per troppo tempo i partiti non hanno guardato alla condizione dell’economia reale del Paese e alle difficoltà crescenti delle persone e, se fallisse il tentativo di Bersani, bisognerebbe continuare a moltiplicare le ipotesi per una soluzione che sia la più rispettosa del risultato del voto».

Sull’effettiva percorribilità degli scenari per la formazione di un governo Linkiesta ha interpellato Gianfranco Pasquino, illustre politologo oltre che parlamentare negli anni Ottanta e Novanta nelle fila della Sinistra indipendente, dei Progressisti, e dell’Ulivo. Prospettiva, quella dell’alleanza riformista incarnata da Romano Prodi, a cui lo studioso dell’Università di Bologna è rimasto profondamente legato, ancorando la sua realizzazione alla proposta di una riforma complessiva della realtà istituzionale e partitica sul modello della Quinta Repubblica francese.

Pasquino, ritiene praticabile l’ipotesi di un esecutivo nazionale che ricalchi l’esperienza della giunta guidata da Rosario Crocetta in Sicilia?
Al momento non sono in grado di rispondere. Rilevo che un voto di fiducia a un governo Bersani da parte degli esponenti delle Cinque Stelle a Palazzo Madama costituirebbe un atto tecnico e altamente rilevante sul piano istituzionale. Perché consentirebbe a un esecutivo di entrare in carica, assumere tutte le sue funzioni, ed evitare lo spettro della paralisi di tipo ellenico. Si tratterebbe dell’unica opzione di responsabilità per lo stesso Grillo, il quale non ha realisticamente altre strade per potere incidere con efficacia sulle iniziative di Palazzo Chigi.

Ma quali contenuti dovrebbero animare un esecutivo presieduto dal leader del Partito democratico con il supporto pragmatico e vincolante del M5S?
Gli obiettivi resterebbero limitati agli otto punti indicati e ribaditi dal candidato premier progressista, riguardanti gli interventi sui costi e la moralità della politica, le iniziative su scuola e educazione, le misure per uno sviluppo sostenibile e per la green economy, le leggi su corruzione, frode fiscale e conflitto di interessi, i provvedimenti di emergenza sul lavoro e contro la crisi sociale. Temi attorno a cui si aprirebbe un dibattito parlamentare soprattutto al Senato. E sulle diverse proposte che si confronteranno potremo verificare la risposta grillina. Resto convinto tuttavia che da quei cardini Bersani non potrà discostarsi, né riuscirà a modificarli o ad arricchirli. Finirebbe per correre troppi rischi, poiché se decidesse di accentuare l’adesione del governo alle direttive dell’Unione Europea andrebbe a sbattere contro le Cinque Stelle. E anche contro la corrente più di sinistra e socialista ortodossa del proprio partito.

L’altra prospettiva prevede un esecutivo con personalità indipendenti dalle forze politiche, patrocinato da Giorgio Napolitano e costretto a mettere in atto le riforme radicali attese da oltre vent’anni per evitare un’ondata ancora più travolgente delle Cinque Stelle nelle prossime elezioni.
Sinceramente non vedo sufficienti personalità dotate dell’elevato spessore istituzionale e culturale necessario per dare vita a una squadra di governo. Ma il Presidente della Repubblica conosce bene i suoi interlocutori politici e potrebbe concepire uno sbocco efficace in tale direzione. A condizione che i ministri del futuro governo non siano gli stessi del gabinetto presieduto da Mario Monti, e che per designare i propri componenti le forze politiche attingano alle buone esperienze di governo di regioni e città. Sarebbe umiliante constatare che i partiti tradizionali non riescono a contare su una classe dirigente di qualità a livello territoriale.

Lo stato maggiore del Nazareno potrebbe valutare un’ipotesi del genere?
Ne dubito fortemente e intravedo spiragli assai ridotti. Come ripetuto da Bersani, il Pd non intende farsi fagocitare in una nuova alleanza con il centro-destra berlusconiano. Prospettiva che alimenterebbe un vasto malcontento in una parte significativa del suo elettorato e andrebbe a ingrossare le fila delle Cinque Stelle.

Lei è da sempre appassionato e tenace fautore di un processo di innovazione della nostra architettura istituzionale ed elettorale ispirata al semi-presidenzialismo d’Oltralpe. Nel nuovo Parlamento potrebbero aprirsi spazi di dialogo per una “riforma francese”?
L’accordo per uno “scambio” nobile e riformatore tra l’adozione del meccanismo di voto maggioritario di collegio a doppio turno richiesta dal Partito democratico e l’investitura popolare del Capo dello Stato con responsabilità di governo invocata dal centro-destra doveva essere raggiunto a dicembre, quando le Camere ne avevano ancora la possibilità. Aver rifiutato un accordo di ampio respiro attorno ai due pilastri del modello transalpino è stato un grave errore compiuto dal gruppo dirigente del Pd. Mentre quel modello rappresenta a mio giudizio l’unico punto su cui Bersani dovrebbe ricercare oggi l’intesa con il Popolo della libertà. Anche perché su questo terreno la visione dei leader e degli esponenti Cinque Stelle è nebulosa e generica.

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