Venezia 1866: alla Fenice è in scena Il Trovatore, quando dai palchi cominciano a volare dei volantini che incitano alla lotta per l’Indipendenza. C’è confusione: tra il pubblico alcuni sono sconcertati, altri applaudono e gridano: “Viva Verdi!”. Scoppia una rissa tra gli ufficiali austriaci e i patrioti italiani. Interviene la polizia asburgica che arresta dei manifestanti. Tutti sanno che ‘Viva Verdi’ è l’acronimo ‘Viva Vittorio Emanuele re d’Italia’. I patrioti italiani avevano preso Verdi a personaggio simbolo del Risorgimento. Lo sappiamo anche noi, ce lo insegnavano a scuola fin dalle elementari. La scena descritta è nel film Senso di Luchino Visconti.
Il 7 dicembre scorso la Scala ha aperto col Lohengrin di Wagner. La scelta di festeggiare il bicentenario della nascita del compositore tedesco prima di quello del nostro Verdi, nato anche lui nel 1813, ha suscitato rigurgiti di orgoglio nazionalistico, sospetti di piaggerie pro Merkel e le solite polemiche sul fatto che le opere di Wagner sono troppo lunghe, troppo fracassone, troppo complicate e… proto-naziste. Intanto i giornali riportavano la trama del cavaliere cristiano custode del Sacro Graal contro arcaiche forze oscure e il costumista faceva indossare divise militari bismarkiane ai cattivi e metteva il magnifico abito di Claudia Cardinale, quello del ballo nel Gattopardo di Visconti: bianco alla mite Elsa e nero alla perfida strega Ortude.
L’intento era forse di modernizzare l’opera, forse di ingraziarsi il pubblico nostrano, comunque di suggerire una qualche interpretazione, naturalmente sottile, colta. Perché l’Opera oggi è per pochi raffinati e per quelli che fanno finta di esserlo. Tra Otto e Novecento, invece, era uno spettacolo popolare, si piangeva, si rideva, si mangiava, ci si identificava coi personaggi. Di più che al cinema. E il ‘fenomeno’ Wagner travolgeva come una valanga o abbagliava come un sole. Lo si amava o lo si odiava senza mezzi termini. Tutti, aristocratici, borghesi, popolino, pittori, scrittori, politici e naturalmente gli altri musicisti si sentivano coinvolti nel bene e nel male e dicevano con passione, veemenza la loro.
Esisteva un’Associazione wagneriana universale con sedi fino a San Pietroburgo, che nel 1884 contava quattrocento circoli solo in Germania. In Inghilterra la potente London Wagner Society propugnava un miscuglio di musica, estetismo e antisemitismo. A Barcellona la sede dell’Associaciò Wagneriana era nel celebre cabaret Els Quattre Gats. «Wagner. Ridacchiare quando si sente il suo nome, fare battute sulla musica dell’avvenire», scriveva Flaubert nel Dizionario delle idee correnti. E Montesquiou: «Bayreuth sta a Wagner come Lourdes sta a Dio». Folle di appassionati di tutti i ceti sociali si recavano in pellegrinaggio al Tempio del Sublime Maestro, una delle prime mete della moda del turismo culturale di massa. Tra i visitatori eccellenti, dopo Théophile Gautier, Friedrich Nietzsche, Ivan Turgenev, Claude Debussy, Mariano Fortuny, Bernard Shaw, Jules Massenet, Mark Twain, Colette, Thomas Mann, Virginia Woolf, ogni estate dal 1933 al 1939, ospite sconcertante della sconcertante Winifred Wagner è Adolf Hitler. Che il dittatore avesse bisogno della magia della musica di Wagner per incantare le masse, come il Pifferaio Magico di Hamelin, e trascinarle nel precipizio? Il tono è troppo leggero per accennare alla tragedia del nazismo.
Comunque, di reazioni violente al personaggio ce ne sono sempre state. Dal 1870, l’anno della guerra franco-prussiana, a Parigi quasi tutte le volte che si rappresentava una sua opera doveva intervenire la polizia per sedare i tumulti di quelli che lo consideravano un agente del nemico. Pungente era anche la satira e le vignette caricaturali che imperversavano anche sui quotidiani non specializzati in musica. Wagner era una pop-star. Un trionfo, il debutto del Lohengrin in Italia nel 1871 al Comunale di Bologna. Lo spettacolo successivo si tiene a Firenze; sappiamo quanto i toscani siano mordaci. I giornali scrissero che invece dei boccali di birra avrebbero preferito del buon Chianti e in una vignetta si vede un cigno su rotelle che porta in groppa l’impresario Scalaberni in viaggio da Bologna; avvinghiato al suo collo vediamo un minuscolo Lohengrin che sventola uno stendardo con scritto ‘Luganeghen’ (salsiccia), che in romagnolo suona simile al suo nome.
È invece un fiasco preordinato il debutto alla Scala di Milano, feudo inoppugnabile di Verdi e del suo editore Ricordi. Una vignetta sullo Spirito Folletto mostra i cantanti colpiti da ‘proiettili vegetali’, cavoli, cipolle, carote, lanciati dal pubblico inferocito. Un episodio di involontario umorismo, quindi più divertente, riguarda Arnold Böklin. Il pittore dipingeva paesaggi pieni di mistero, che alludevano a presagi e cupi misteri e che sembravano in sintonia con la poetica wagneriana. Ma a Böklin la musica del maestro non piaceva e s’era sempre rifiutato di dipingere le scenografie per le sue opere. Alla fine fu costretto a cedere alle insistenze di Cosima Liszt, moglie di Wagner, e realizzò un gigantesco drago Fafner per il Siegfried, che per un errore delle poste, anziché a Bayreuth finì a Beirut.
Un altro paradosso, ma questa volta solo apparente, è che il Sublime Maestro, il Demiurgo della Musica dell’Avvenire, il creatore dell’Opera d’Arte Totale, fu utilizzato per vendere dei dadi da cucina, o più precisamente i loro antenati. Faceva infatti bella mostra di sé sulle figurine Liebig. Si potrebbe anche raccontarla al contrario: il colmo del successo è che tutti vogliano sapere chi sei, cosa fai. La misura della popolarità di Wagner e delle sue opere è anche data dal fatto che dal 1885 al 1913 gli sono state dedicate un’infinità di serie delle famose figurine Liebig.
A inventarle era stato il barone tedesco Justus von Liebig per far pubblicità al suo rivoluzionario estratto di carne in scatola a lunga conservazione. Una figurina in omaggio per ogni confezione acquistata. Il prodotto era distribuito in tutta Europa e collezionare le figurine Liebig diventò presto un’ossessione collettiva. Innanzitutto erano bellissime, stampate in cromolitografia con fino a dodici colori, disegnate dagli illustratori più in auge. La pubblicità del prodotto era elegantemente scritta su una pergamena in stile Art Nouveau con la firma del barone in un angolo. Su tutta la superficie si aprivano le sontuose immagini, con la storia sul retro. Le figurine erano in serie tematica, di sei o dodici esemplari, per cui non se ne poteva assolutamente perdere una. C’erano serie che raccontavano la vita di Wagner, altre che rappresentavano le Opere intere attraverso le scene clou di ciascun atto, altre ancora che raccoglievano medaglioni di eroi ed eroine dei suoi drammi.
Diventavano storie che conoscevano tutti, personaggi esemplari, si prendeva ad esempio il coraggio di Parsifal, si voleva una fidanzata come Siglinda, si piangeva sull’infelice amore di Tristano e Isotta, si copiava la pettinatura di Brunilde, si chiamavano coi loro nomi i figli, come si fa oggi con gli attori dei serial tv. Guardando quelle figurine proviamo una specie di choc di riconoscimento, che non si riesce a identificare subito: hanno un sapore vecchiotto – per forza, visto che hanno più di cent’anni – ma suonano molto familiari, e poi… la rivelazione, come in un dejà-vu: sono identiche alle copertine dei romanzi e dei film Fantasy. Sovraccariche di personaggi in pose enfatiche, di colori, di montagne scoscese, di mari tempestosi e di lampi. «La mia sensibilità, che è eccitabile, delicata, eccezionalmente dolce e tenera, deve essere in qualche modo lusingata perché il mio spirito possa assolvere l’impegno orribilmente difficile di creare un mondo non esistente», potrebbe sembrare una dichiarazione di Tolkien della Saga degli Hobbit o di Lewis delle Cronache di Narnia, invece è genuina di Wagner.
Lo spunto a queste associazioni è dato dalla mostra Fortuny e Wagner, Il wagnerismo nelle arti visive in Italia a Palazzo Fortuny di Venezia, che naturalmente non espone solo curiosità umoristiche o kitsch. Troviamo opere neoromantiche e simboliste, di autori famosi come Previati, Sartorio, Wildt, di minori e naturalmente di Fortuny, il wagneriano più appassionato, più versatile. Oltre ai dipinti e alle incisioni, scopriamo che fu l’inventore di rivoluzionari dispositivi scenici. Secondo Mariano Fortuny la rivoluzione della Gesamtkunstwerk, l’Opera d’Arte Totale, aveva trascurato l’allestimento, le luci, i fondali, che erano rimasti quelli tradizionali, artificiosi e falsi. In scena si sarebbe dovuto creare un effetto di ‘ vaporosa profondità’ che desse impressione di realtà, abbattesse le barriere della finzione e quindi coinvolgesse di più il pubblico. Attraverso una serie di bozzetti, di schizzi, di studi tecnici, vediamo a poco a poco formarsi il progetto della Cupola, una sezione concava a forma di quarto di sfera, su cui si proiettava un complesso sistema di luci colorate: un vero orizzonte ‘dipinto’ dalla sola illuminazione.
L’effetto era quello di far muovere i personaggi en plein air. Fortuny creò anche delle specie di cannocchiali con lenti interscambiabili per proiettare nuvole, lampi, albe. Vediamo nel modellino in mostra che le pareti della Cupola erano in cotone del tipo di quello utilizzato in aerostatica, con una struttura in ferro, immaginatevi la capotte delle carrozzelle, che si apriva con un sistema pneumatico molto semplice da manovrare. La struttura, azionata da un motore elettrico, era montata su dei binari e poteva scomparire in sessanta secondi. Facilissima quindi da trasportare. Fortuny inventore, si provò anche a fare l’imprenditore, associandosi con la tedesca AEG per commercializzare i suoi apparati teatrali, ma il progetto si arenò. Finalmente Cupola e sistema di illuminazione ebbero il loro trionfale debutto nel 1922 con il Parsifal alla Scala di Milano. Il progetto dell’Opera Totale era compiuto. Da allora tutti i teatri si contesero la nuova installazione.
FORTUNY E WAGNER
Il wagnerismo nelle arti visive in Italia
Venezia, Palazzo Fortuny
Fino all’8 aprile 2013
catalogo Skira