Quanti nuovi posti di lavoro potrebbe creare la riduzione delle tasse? Che impatto avrebbe sull’occupazione la messa in sicurezza del territorio nazionale? Se le proposte di politica economica sono corredate anche da una stima delle possibili ricadute occupazionali diventano in genere più convincenti. Ed è anche per questo che sindacati, associazioni datoriali e istituzioni varie non lesinano mai cifre di questo tipo.
L’ultima, in ordine di tempo, è targata Confindustria: «La liquidazione dei crediti delle imprese da parte della pubblica amministrazione potrebbe portare a un aumento in cinque anni di 250mila occupati», ha detto il presidente Giorgio Squinzi citando le stime del Centro Studi di Viale dell’Astronomia.
Se gli industriali calcolano gli effetti positivi da qui al 2018 del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, a fare ipotesi sul fronte tasse è la Cgil. Tra gli scenari elaborati per il Piano del lavoro presentato a gennaio, il sindacato guidato da Susanna Camusso ha immaginato il possibile incremento degli occupati generato da una riduzione dell’Irap di 10 miliardi nel 2013: +0,2% nel 2014 (tra i 40 e i 50mila posti di lavoro) e +0,1% nel 2015 (20-25mila posti di lavoro).
Tagliare i costi del lavoro può essere la ricetta giusta? Secondo lo stesso studio Cgil, elaborato dal Cer (Centro Europa ricerche), una sforbiciata di 10 miliardi nell’anno in corso alle aliquote contributive porterebbe alla creazione di 100-120mila posti tra il 2014 (+0,2%) e il 2015 (+0,3%).
Una singola misura che in base ai calcoli della confederazione di Corso Italia impatterebbe in modo ancora più significativo è una decisa accelerazione negli investimenti pubblici: 10 miliardi in più nel 2013. Stando alla simulazione, in due anni la scelta “keynesiana” farebbe lievitare l’occupazione di un punto percentuale (+0,6% quest’anno, +0,4% nel 2014): si tratterebbe di almeno 200mila nuovi impieghi.
Quando la crisi fa sentire di più i suoi effetti, l’ambiente e la sostenibilità passano spesso in secondo piano nel dibattito pubblico. Lo stesso discorso non vale però nell’ambito delle previsioni per il futuro: il maggior numero di pronostici sugli scenari del lavoro verte proprio sui temi green.
A cominciare dalla lotta al dissesto idrogeologico, considerata prioritaria in un territorio così soggetto a frane, alluvioni e sismi come quello italiano. L’Anbi (Associazione nazionale bonifiche e irrigazione) ha calcolato che la messa in sicurezza delle 2.943 aree a maggior rischio nel Paese potrebbe vedere la nascita di nuovo impiego per 50mila persone a fronte di un investimento di 6,8 miliardi di euro.
Se si realizza quanto previsto da Nomisma a proposito dell’efficientamento energetico degli edifici, puntare sull’edilizia sostenibile può essere una soluzione efficace per allentare la morsa della disoccupazione. L’istituto stima che se si riqualificassero gli immobili pubblici del Belpaese non efficienti (più di 85 milioni di mq), investendo 17 miliardi di euro, ci sarebbero tra i 200 e i 400mila posti di lavoro in più. Quindi, nella migliore delle ipotesi, un intervento del genere arriverebbe quasi ad annullare il calo di occupati registrato nel 2012 (secondo l’Istat, 474mila in meno).
Fillea Cgil e Legambiente prevedono invece che la riqualificazione sia degli edifici privati che di quelli pubblici, mantenendo inalterate le misure di incentivazione fiscale (detrazione del 55%), potrebbe generare entro il 2020 almeno 600mila impieghi.
Lo stesso incremento fino al 2020, 600mila nuovi occupati, si otterrebbe, secondo una stima più cauta, se si facessero lievitare gli investimenti complessivi, pubblici e privati, su tutta l’economia sostenibile (mobilità, servizi ambientali e bonifiche, acqua e rifiuti, efficienza energetica, rinnovabili termiche e rinnovabili elettriche). L’ipotesi, formulata nello studio “Green economy: per una nuova e migliore occupazione” dei ricercatori Iefe-Bocconi Federico Pontoni e Niccolò Cusumano, implica che da uno scenario business as usual (in cui si investono in economia verde 28,3 miliardi di euro in media all’anno) si passi a uno scenario “Go green” in cui gli investimenti annui sono in media di 34 miliardi e quelli complessivi, in sette anni, 272 miliardi.
Parallelamente alla green economy, l’altra macroarea per cui si prevede puntualmente crescita di pil e nuova occupazione è l’innovazione 2.0. Confindustria digitale ha stimato che se dal 2013 sarà attuata una serie di interventi per raggiungere i target previsti dall’Agenda digitale per il 2015, in Italia si potranno generare circa 300mila nuovi posti di lavoro. Secondo la federazione, molte delle misure sono già previste nel decreto Crescita 2.0 varato a fine 2012, tra cui la promozione delle start up innovative, la digitalizzazione della pubblica amministrazione e lo sviluppo delle infrastrutture a banda larga. Per conseguire l’obiettivo però vanno aggiunte – affermano le imprese – altre azioni, tra cui l’introduzione di incentivi per digitalizzare le Pmi, soprattutto in ambito e-commerce, e un quadro di semplificazione per gli investimenti nelle infrastrutture di telecomunicazione.
Nell’universo di Internet, una possibile fonte di nuovo lavoro è la lotta al crimine digitale. Una ricerca del 2011 commissionata da Microsoft a Idc Italia ha infatti rilevato che ridurre del 10% il software illegale e la pirateria in Rete darebbe il via a 7.500 nuovi contratti.
Ma come si fanno queste previsioni e quanto sono attendibili? «Nel nostro caso, le stime si basano su un modello consolidato a livello europeo», spiega Niccolò Cusumano, ricercatore all’Iefe (Centre for Research on Energy and Environmental Economics and Policy) dell’Università Bocconi e coautore della ricerca sulla green economy menzionata sopra.
«In sintesi, si parte dalle descrizioni ufficiali della realtà economica e si vede anno dopo anno qual è il livello di investimenti per ciascun settore considerato e l’occupazione a esso corrispondente. A quel punto, si fanno ipotesi sull’andamento del pil e su altri indicatori, si prevede l’evoluzione degli investimenti e si calcola quanti posti di lavoro possono essere generati. Il limite del modello è che non può prevedere mutamenti radicali nei settori presi in esame».
Insomma, le stime sono fallibili, soprattutto in presenza di shock imprevedibili. Ma le basi scientifiche su cui vengono elaborate sono solide, e per questo motivo la capacità predittiva resta comunque alta. «Una volta costruito un modello, si tratta di proiettare nel futuro la realtà con una serie di esercizi probabilistici», dice Riccardo Sanna, responsabile Cgil dell’Ufficio di economia, fisco e finanza pubblica e coautore delle ricerche per il piano del lavoro. «Poi si incrociano diverse variabili rispetto a quella che si è deciso di muovere, cioè gli investimenti. Quante più variabili si riescono a calcolare, tanto più la previsione sarà affidabile». Tuttavia, ammette il sindacalista, le stime «non possono mai aderire perfettamente alla realtà, anche perché le premesse richiedono la scelta di fondo di una teoria economica sulla quale costruire il modello. E questa scelta è filosofica».