«”Buonocore, arrivano i cinesi”. “Ma è un bel po’ che si dice”. “D’accordo, ma questa volta arrivano davvero. Pare che saranno qui in ottobre”. Sospirò l’ingegnere. Correva l’anno 1994. Chi lo scorderà più quel sospiro?». È la fine di un’epoca e la racconta, Ermanno Rea, nel suo romanzo “La dismissione”. Finisce l’era di “Ferropoli” che avrebbe dovuto essere lo strumento del grande riscatto di Napoli, avrebbe dovuto entrare nel vicolo e bonificarlo, avrebbe dovuto essere l’antidoto contro tutte le sue malattie. E invece.
Il grande centro siderurgico, tra i primi in Europa, viene fatto a pezzi e rimontato in Cina. La rinascita, o meglio l’ultima delle eterne speranze di rinascita, viene affidata alla nuova Bagnoli, un polo di servizi, la Villette parigina all’ombra del Vesuvio. Napoli e Parigi si sono inseguite per secoli, soprattutto tra ’600 e ’700, e poi ancora con Napoleone, il teatro, la musica, la Belle Époque, la manifattura, gli aeroplani, l’acciaio, le automobili. E ora le alte tecnologie. Finché le fiamme nella Città della scienza mandano al rogo anche questa illusione.
Il sogno industriale era durato oltre cento anni. Non solo sogno, ad esser sinceri, ma realtà, già all’inizio del Novecento e fino agli anni ‘70, prima che l’Italia imboccasse la sua strada in discesa. «Ci collocammo tra i più bravi al mondo – ricorda il personaggio di Rea – addirittura in materia di promise parola che comunque la si voglia tradurre significò una cosa soltanto: che Napoli non menava per il naso i propri clienti nel senso che consegnava con assoluta puntualità le merci ordinate».
Lo smantellamento dell’Italsider coincide con la crisi della Prima repubblica, ma anche con i diktat del piano siderurgico europeo del barone Etienne D’Avignon che penalizza l’Italia. È vero, l’Italsider, persino a Taranto con l’impianto più grande e produttivo d’Europa, non poteva più andare avanti senza che il governo ogni anno rifinanziasse i debiti. La privatizzazione era inevitabile e doveva essere salutare. Eppure, nell’insieme ha segnato il ridimensionamento dell’Italia come potenza siderurgica europea. Cosa che in Francia sta succedendo solo adesso e in Germania non succede affatto, alla faccia della teoria ricardiana dei costi comparati.
A Bagnoli la prima fabbrica, una vetreria, risale al 1853: i Borboni erano reazionari ma non così arretrati come li si dipinge, basti ricordare che la Napoli-Portici fu la prima ferrovia italiana. Nel 1910 s’inaugura l’Ilva con 2000 operai, che lavora con il ciclo integrato: via mare arrivano le materie prime, e via mare viene spedito l’acciaio. La Grande Guerra stressa al massimo la produzione e la crisi postbellica fa chiudere l’impianto fino al 1924. Tre anni dopo nasce un vero polo industriale che ruota attorno all’acciaio, al cemento e all’amianto grazie alla genovese Eternit. Le bombe anglo-americane prima, i tedeschi in ritirata poi, radono tutto al suolo.
È l’industria di stato nel dopoguerra a rinverdire i vecchi allori. Finché le due crisi petrolifere degli anni ’70 rendono troppo costosa l’industria pesante. Nel 1981, il visconte belga Etienne D’Avignon partorisce un piano che prevede un drastico taglio della capacità produttiva in Europa. Ma la vera vittima è l’Italia la cui attività è concentrata nei prodotti di base. Mentre la Francia si chiude a difesa della Nation e la Germania ne approfitta per potenziare la propria specializzazione negli acciai speciali, la Comunità europea emette una sentenza di morte per la siderurgia pubblica italiana. In fondo, la privatizzazione dell’Italsider negli anni ’90 è figlia di quel piano. Nel 1981, l’allora ministro delle Partecipazioni statali, il socialista Gianni De Michelis, annunciò che bisognava chiudere l’altoforno di Bagnoli. Al suo posto sarebbe nato un laminatoio. Costò 800 miliardi di lire ai contribuenti italiani, poi fu ceduto agli indiani per 30 miliardi. Niente, in futuro, riuscirà a salvare gli ottomila posti di lavoro.
Quell’area un tempo fumigante, nera di carbon coke, riscaldata da un fuoco che sembra l’Ade (e la suggestione è antica: il lago Averno dista pochi chilometri), è oggi un deserto, tra archeologia industriale e fantasiosi progetti di terziario più o meno avanzato. Il più concreto in realtà sembra il centro benessere che sfrutta il vulcanismo dell’area e riporta Bagnoli alle origini romane, quando si chiamava appunto “Balneolis” perché ospitava centri termali. Il resto è ancora in cerca di soldi e, per così dire, d’autore.
Tra progetti in corso, realizzati e ipotizzati, ci sono stati un acquario, un’area concerti, una voliera per le farfalle, campi di calcio, tennis, basket. E piscine, massoterapia, parcheggi, un porto turistico, studios cinematografici e televisivi, case popolari, residenze vip, alberghi, archeologie industriali. Qualcuno ci ha scaricato sacchetti di spazzatura, quando Napoli non sapeva più dove metterli. Qualcun altro ipotizza trivellazioni per estrarre gas e calore dai vulcani flegrei.
Il 27 luglio 2012, viene inaugurata la porta del Parco, ingresso alla struttura, splendida cattedrale del nulla, una finzione scenica perché l’inaugurazione c’è già stata almeno un paio di volte, mentre i denari sono scomparsi. Non ci sono più i 65 milioni per portare avanti la bonifica. Il governo non ha la benché minima intenzione di investire, l’Unione Europea sta chiudendo i cordoni della borsa dopo essersi fatta illudere per anni dalle missioni partenopee partite dal Comune e dalla Regione Campania. I privati non sono mai arrivati. «Vendo Bagnoli chi la vuol comprare / colline verdi mare blu / avanti chi offre di più» cantava Edoardo Bennato. E la Città della scienza?
Nel 2002, il comune di Napoli aveva creato la Bagnolifutura spa, con la partecipazione minoritaria del comune e della provincia. Era il grande progetto di Rosa Russo Jervolino, sindaco di Napoli e di Antonio Bassolino, presidente della Regione. Il progetto di una sinistra moderna che dalle ceneri della vecchia cultura industriale e operaia creava l’Italia del futuro ad alta tecnologia. Fiore all’occhiello doveva essere la Città della scienza, ideata e organizzata da Vittorio Silvestrini, fisico bolzanino che insegna a Napoli, eminenza scientifica del Pci prima e dei suoi derivati successivi. La Palestra dedicata alla fisica, il planetario, l’officina dei piccoli, le mostre temporanee, ne hanno fatto un museo, moderno e interattivo.
Ma non si è vista la parte più creativa, quella legata all’incubatore di imprese innovative. Non ha fatto in tempo, si dice, perché sono sempre mancati i fondi che dipendevano in tutto e per tutto dai trasferimenti pubblici. La crisi del 2008, poi, ha segnato il colpo finale. L’incendio, nella notte del 4 marzo, è in qualche modo un segno del destino.
Allora bisogna dar ragione a Camillo Langone, fatta la tara alle sue invettive da sudista rinnegato? “Terrone” leghistizzatosi a Parma, scrive odi ai capelli impomatati di Zaia, il presidente del Veneto, e sputa sui “piccoli napoletani” (lui che è di Potenza) che non sanno nulla di industria. Irride sul Foglio la Napoli industriale, la Napoli operaia e tradisce l’antico odio della provincia meridionale per la capitale, miseria e nobiltà, mentre altrove c’era solo miseria.
E tuttavia, anche il più perfido nemico ha qualcosa da insegnare. È vero che alla fine della fiera la nuova Bagnoli è stato un fallimento, tra stipendi non pagati e illusioni perdute? O, peggio ancora, un mostro vuoto di megalomania scientista? E magari le fiamme sono state appiccate non dalla sanguinaria camorra, ma da un creditore fuori dai gangheri? Secondo Il Mattino c’è una storia sporca di lotti edificabili. Può darsi. Certo è che il polo post industriale non è mai nato. Forse cercandone il perché si potrà capire meglio l’incendio. Ma si potrà anche sapere come ricominciare per non ripetere atavici errori. I soldi pubblici non ci sono. I capitalisti italiani non investono quelli stranieri si tengono alla larga dal rischio sovrano. Perché dovremmo, dicono italiani e stranieri, se non ci danno gli incentivi? E non viene loro in mente che rischiare e investire quello è il loro mestiere. Altrimenti sarebbero rentier, come i baroni della manomorta borbonica.
Il destino di Napoli non è il degrado né l’emarginazione. La storia lo insegna. Ma spetta agli uomini trarne lezione. E capire che il futuro della città come quello dell’intero Mezzogiorno, è strettamente legato alle prospettive dell’Italia. Può decollare un polo tecnologico in un paese dove le risorse per ricerca e sviluppo sono ai minimi dei paesi industrializzati?
E qui non è colpa dello Stato che, anzi, spende come tutti gli altri, ma dei privati. Lo mostrano le cifre, lo dimostra la difficoltà delle imprese a crescere, ad adattarsi alla competizione globale, a occupare non più solo nicchie, ma rami, settori di eccellenza. La Città della Scienza, dunque, non è la solita vicenda della solita Napoli. Parla di tutti noi.