Le votazioni dei mille grandi elettori riuniti a Montecitorio sul nuovo presidente della Repubblica cominceranno giovedì 18 aprile, una data carica di significato e non priva di suggestioni per le svolte che, comunque la si pensi, hanno segnato profondamente la vita del nostro Paese.
Usciti adesso da una prova elettorale dall’esito ambiguo e frammentato e dalle prospettive incerte pur in una drammatica fase di recessione e di smarrimento collettivo, diventa forse più acuto il riferimento alle prime elezioni politiche generali dell’Italia liberata. Allora, appunto il 18 aprile 1948, il popolo sovrano fu chiamato ad una inequivocabile “scelta di campo” tra le collocazioni internazionali, che significavano due antitetiche “visioni del mondo”, due diversi modi di vivere l’economia, la libertà, la stessa democrazia. O l’Oriente comunista egemonizzato dall’Unione Sovietica ancora saldamente sotto il “regno” di Stalin, oppure l’Occidente delle democrazie liberali europee e guidato dalla potenza uscita vincitrice dalla Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d’America.
E in Italia gli schieramenti, prima prova di quel “bipolarismo imperfetto” che ci accompagnerà a lungo ed è tutt’ora insito nella natura politica del Paese, si componevano da un lato attorno alla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e dei suoi alleati laici e sull’altro versante con il Fronte Popolare che raccoglieva comunisti e socialisti sotto il faccione di Garibaldi e delle sue camicia rosse. La saggistica, i giornali e i cinegiornali in bianco e nero dell’epoca ripropongono ancora oggi la dimensione epocale di quelle prime elezioni libere nella democrazia repubblicana. Una campagna elettorale al calor bianco, un clima di contrapposizione particolarmente acceso e una mobilitazione di massa diffusa e capillare. Il risultato è noto: a larga maggioranza l’Italia scelse De Gasperi e l’Occidente e avviò in pochi anni una tumultuosa crescita economica che trasformò rapidamente quello che era un Paese contadino in una nuova società industriale.
Lo smacco per la sinistra di allora fu davvero bruciante, anche perché aveva l’intima convinzione di poter prevalere. È di allora anche il commento del segretario socialista Pietro Nenni (“Piazze piene, urne vuote”) con il quale ammetteva di non aver avuto fino in fondo il polso del Paese reale. E tuttavia, senza scomodare la memoria critica di Giorgio Napolitano, già giovanissimo dirigente comunista, restò negli anni successivi in quella sinistra la consapevolezza interiore che alla fine era stato meglio così. Non solo per il Paese, ma perfino per il PCI, che restò sempre il più forte e rispettato partito comunista dell’Occidente. E perfino lo stesso leader del PCI, Palmiro Togliatti, si lasciò sfuggire negli ultimi anni che era stato meglio che all’Italia fosse stato evitato l’infelice destino capitato alla Cecoslovacchia. Ovvero il Paese più avanzato e moderno del Centro Europa, che proprio allora finiva (ma per un “golpe” e non per libere elezioni) sotto il tallone di una dittatura comunista che avrebbe congelato per mezzo secolo non solo la libertà dei cittadini ma lo sviluppo dell’economia.
Sono passati 65 anni, e diverse generazioni: eppure quel “18 aprile” rimane nella memoria collettiva come l’origine ineliminabile del carattere della nostra democrazia, pur con tutti i difetti che continuano ad accompagnarla. Ma c’è anche un altro riferimento al 18 aprile che in particolare per Milano può riscattare la smemoratezza di sé di cui la città sembra essere spesso più che afflitta.
Il 18 aprile è infatti San Galdino, un nome che si è perso nel tempo, e che al massimo ricorda quel “fra’ Galdino” raccoglitore di noci e di elemosine che compare, figura efficace ma comprimaria, nel romanzo di Manzoni. E invece per secoli è comparso nella triade dei vescovi di Milano (Ambrogio, Galdino e Carlo) protettori della città. In suo onore si celebravano proprio in quel giorno processioni, feste e cortei aperte dalla “ghirlanda de San Galdin” che segnava di fatto l’inizio della primavera. La secolare tradizione venne bruscamente interrotta dall’occupante asburgico, che ne vietò lo svolgimento nel 1847. Era mancato da poco l’arcivescovo conte Gaisruck , nobile austriaco che per trent’anni aveva retto la curia ambrosiana in sostanziale accordo con il potere civile. I milanesi reagirono all’affronto boicottando il governo e le sue finanze. Cominciò infatti “lo sciopero del Lotto”, seguito più avanti dallo “sciopero del fumo”, per far mancare risorse ai monopoli casse dello Stato asburgico, in un clima sempre più teso che sfociò l’anno dopo nella rivolta delle Cinque Giornate di Milano.
Ma perché il richiamo a San Galdino faceva così paura alle autorità austriache? Perché la sua storia era quella del dissenso e della lotta contro il potere dell’usurpatore. Infatti Galdino della Sala, vissuto tra il 1096 e il 1176, quando morì il 18 aprile sul pulpito della cattedrale, si era battuto in difesa di Milano e della sua autonomia di Libero Comune contro il potere dell’imperatore Federico il Barbarossa. Era stato l’anima della resistenza della città, il suo ricostruttore dopo la distruzione del 1162 ordinata dall’imperatore e pure animatore a quanto risulta dai documenti dello stesso giuramento di Pontida. Non solo: aveva duramente attaccato l’antipapa creato di fatto dal Barbarossa, mantenendo la Chiesa di Milano fedele al legittimo Papa di Roma.
Dunque un santo arcivescovo “leghista” ante litteram? Certamente un “Defensor Civitatis”, (che è uno dei titoli di cui fu insignito) ma anche un “Pater Pauperum” (padre dei poveri) che accolse e soccorse sempre, anche se venivano da lontano. E durante le sofferenze dell’ultimo conflitto mondiale la Chiesa ambrosiana organizzò (primo embrione dell’odierna Caritas) la raccolta del “Pane di San Galdino” per aiutare e sfamare chi aveva perso tutto sotto i bombardamenti. Come “parla” allora il 18 aprile…