«Sono assolutamente soddisfatto»: con una frase secca e sbrigativa Giuliano Amato ha accolto l’incarico a Enrico Letta di formare il nuovo governo. Una scelta che lo ha sorpreso, perché anche i quirinalologhi più stagionati giurano che fino all’ultimo momento Giorgio Napolitano avrebbe voluto proprio lui, l’italico Talleyrand, a palazzo Chigi. Che cosa gli ha fatto cambiare idea? L’età, non c’è dubbio. Amato ha 76 anni e anche se il Wall Street Journal ha salutato con soddisfazione la saggezza dell’Italia senior, l’idea di una gerontocrazia avrebbe appesantito il giudizio (e il pregiudizio) su un paese che non riesce a rinnovarsi. Ma non è stata solo una scelta generazionale. Portare per la terza volta Amato a capo del governo avrebbe evocato gli spettri del 1992. Lo stesso candidato, del resto, il giorno prima aveva smentito in anticipo le preoccupazioni peggiori: niente patrimoniale e, soprattutto, niente prelievo forzoso sui conti correnti, il provvedimento che lo ha reso famoso (o famigerato). Ma, nonostante questo, i tamburi rullavano nella rete e fuori, a destra e ancor più a sinistra.
Una terza preoccupazione riguarda la tenuta del Partito democratico. Napolitano ricorda bene lo schiaffo del novembre 2011. Mario Monti, incaricato dal presidente di formare un governo politico, non tecnico, con dentro, in qualità di vice, i capi dei tre principali partiti (Pdl, Pd e Udc), ricevette un secco no da Pier Luigi Bersani. Per aggirare il veto, propose Enrico Letta. Bersani rifiutò: Letta lo avrebbe scavalcato. A quel punto il professore tirò fuori Amato. «Benissimo, ha tutto il mio apprezzamento – replicò il segretario del Pd – Ma sappi che non ci rappresenta, non è nemmeno iscritto al partito». Il rischio, dunque, di avere un nuovo caso Marini, con i piddini schierati contro Amato, sarebbe stato altissimo. Esiste anche con Letta, sia chiaro, ma in questo caso riguarda solo la minoranza. Così, è sfumata l’ultima occasione. Non tanto grande quanto la presidenza della Repubblica (sognata e ancora una volta solo sfiorata), ma tuttavia ambita da un uomo che ha un’alta considerazione di sé e dei propri mezzi.
A chi lo aveva accusato di rappresentare l’epitome vivente della vecchia politica, aveva replicato seccato con una lettera a Repubblica, il giornale che gli è sempre stato più vicino, persino quando era il braccio destro di Bettino Craxi. «Non faccio parte della casta», ha protestato con ira non trattenuta. «Dovrei vergognarmi del fatto di essere stato tanto stimato in Europa da essere chiamato a vice presiedere la Convenzione per la Costituzione europea e tanto stimato negli Stati Uniti da essere eletto lì, e certo non per intrighi di caste italiane, alla American Academy of Arts and Sciences?» E ancora: «Un curriculum così va additato ai giovani come un esempio da non seguire o come modello di mobilità sociale al quale chiunque possa aspirare per sè o per i propri figli in un’Italia che lo sta rendendo sempre più difficile a chi non ha vantaggi di partenza?».
Come dargli torto. Il nonno muratore, la madre con la licenza elementare, il padre appena diplomato. Una famiglia siciliana, trasferitasi in Toscana. E lui, partendo dal niente, si laurea alla Normale di Pisa e sale al vertice del potere. Sì, nella stanza dei bottoni, come la chiamò Pietro Nenni, è entrato ancora giovane e non ne è più uscito. E questo Giuliano Amato non può certo negarlo. La lettera rivela molto della personalità di quello che è stato chiamato “il dottor Sottile” da uno Scalfari beffardo, ma ammirato, o Topolino nelle vignette irriverenti di Forattini. Sono frasi illuminanti come quella che gli è stata a lungo rimproverata, quando, per legittimare il salasso del 1992, compreso il prelievo forzoso sui conti correnti, disse che in fondo il costo equivaleva a una pizza al ristorante.
Sicuro di sé e delle proprie capacità (fin troppo), Amato era rimasto una eminenza grigia fino alla torrida estate in cui la lira crollò e lui, al timone di un governo pentapartito, mentre tintinnavano le manette e Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli cadevano uno dopo l’altro sotto la mannaia di Antonio Di Pietro, si è trovato a dover salvare l’Italia con la manovra fiscale più pesante della storia, prima di quella propinata da Mario Monti nell’inverno 2011.
Giuliano Cazzola, ex sindacalista della Cgil, poi parlamentare del centro-destra, suo compagno nel Psi (anche di corrente perché venivano entramnbi dalla sinistra giolittiana) ricorda Amato come animatore, prima, del Progetto socialista che fece da sottofondo culturale alla svolta craxiana del Midas del 1976; poi, come fondatore e primo presidente dell’Ires, il centro studi della Cgil: «Ma la sua vera epopea inizia nel 1983, a fianco di Bettino Craxi a Palazzo Chigi, alla direzione di un governo al quale oggi vengono riconosciuti meriti allora pervicacemente negati. Amato fu in simbiosi col premier socialista. I Consigli dei ministri venivano aperti da Craxi il quale si limitava a tracciare indirizzi di carattere generale. Poi la palla passava ad Amato che interloquiva con i ministri e sintetizzava il quadro delle decisioni da assumere».
Negli anni successivi, da ministro del Tesoro, Giuliano Amato elaborò una moderna legislazione dei mercati finanziari, completamente assente in Italia, ed avviò la privatizzazione delle principali banche in maggioranza detenute dallo stato. «E’, tuttavia, nel ruolo di presidente del Consiglio, nel 1992-1993, che ha conquistato il diritto a un posto nella storia del paese», insiste Cazzola. Nessun governo aveva mai fatto tanto, in una situazione così grave e in soli pochi mesi: 120 mila miliardi di lire di manovra finanziaria in due tranche, riforma dei più importanti settori della spesa pubblica (sanità, pensioni, pubblico impiego, finanza locale), promozione di un moderno sistema di fondi pensione e quant’altro, tra cui il protocollo triangolare del 31 luglio che infilzò il mostro della scala mobile.
Proprio allora lo studioso pignolo, il saputello con il ditino alzato, diede il meglio di sé. Solo recentemente gli è stato riconosciuto di aver asfaltato la strada percorsa poi in carrozza dal governo istituzionale guidato da Carlo Azeglio Ciampi. Con il crollo del Psi, Amato passa nel centro sinistra (senza prendere tessere di partito), tra l’amareza di Craxi. “Ma non fu lui in realtà a tradirlo”, commenta adesso Bobo che lo capisce. “Giuliano non è tipo da farsi trascinare nel gorgo”, ammette la sorella Stefania che pure ha compiuto la scelta opposta insieme a tanti altri socialisti. Non altrettanto si può dire del suo secondo passaggio a palazzo Chigi, un periodo più breve del precedente, dopo la caduta di Massimo D’Alema. Fece da ponte alla vittoria trionfale di Silvio Berlusconi nel 2001, ma non si può certo rimproverargli il tracollo dell’Ulivo abbattuto dalle guerre intestine e dagli odi che storicamente segnano la sinistra (quella italiana in modo particolare).
Come studioso, Amato non verrà ricordato in quanto innovatore teorico. Tuttavia i suoi lavori sul welfare state e la spesa pubblica, oppure la rivalutazione del mercato (un mercato concorrenziale e ben controllato, ça va sans dire per un socialista), hanno dato contributi di grande interesse al dibattito su come uscire dall’ombra di un marxismo trasformatosi in estenuata ortodossia. Certo, non ha torto chi mette in risalto le contraddizioni del personaggio. Quando lasciò il governo nel 1993 disse: «Con questa esperienza concludo la mia carriera politica. Non pretendo di essere il protagonista di molte stagioni». Terminato il mandato, sarebbe tornato a insegnare il Diritto Costituzionale. «A differenza di altri colleghi mi considero imprestato alla politica». Un prestito che già allora durava da un quarto di secolo.
Negli anni successivi ha ricoperto una quantità di incarichi di primo piano. Dal ’94 al ’97 è stato presidente dell’Antitrust. L’anno dopo ministro delle Riforme del governo D’Alema. Nel ’99 ministro del Tesoro. Dal 2000 al 2001 è stato nuovamente presidente del Consiglio. Dal 2001 al 2006 senatore, dal 2002 al 2004 vice presidente della Convenzione costituente europea. Poi parlamentare per la quinta volta e ministro degli Interni nel secondo governo Prodi. Quando, poi, nel 2009 viene nominato presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, la mitica Treccani condensato del sapere, molti pensano che abbia trovato la poltrona che fa per lui, alla quale s’aggiunge l’anno successivo una consulenza per la Deutsche Bank, autorevole e sfortunata perché non riesce a impedire che la banca tedesca venda titoli italiani nella primavera estate del 2011 dando inizio alla danza macabra dello spread. Ma forse gli è servita per spiegare meglio la crisi in una trasmissione su Rai 3 alla quale, infaticabile, si presta.
Ebbene, chi vedeva un Amato in pensione dorata (Il Giornale ha scritto 31 mila euro al mese, ma lui sostiene che sono solo 11 mila nette), non poteva non sbagliare. I tam tam sul dopo Napolitano lo annunciavano tra i presidenziabili anche grazie alla sua capacità di stare da una parte, incassando apprezzamento e consenso anche dell’altra. Del resto, sette anni fa era stato proposto dall’allora Casa della Libertà, mentre a sinistra Napolitano prevaleva su un troppo divisivo Massimo D’Alema.
Poi gli eventi hanno preso un altro percorso, è maturato bon gré mal gré un clamoroso secondo mandato al vecchio presidente. Ma chissà, nulla è perduto. E molto dipende da cosa combinerà l’eterno fixer, quello che viene chiamato per aggiustare le cose. Giuliano Amato ha 75 anni, un’età che volge al desio e rende più rispettabili. Indefesso giocatore di tennis, vacanziero marino nella sua villa ad Ansedonia, tra Capalbio e l’Argentario, facondo scrittore di articoli sui giornali (dalla Repubblica al Sole 24 Ore), buon conoscitore dell’inglese (anche se professorale e con una pronuncia non impeccabile), certo nessuno gli può rimproverare mancanza di competenza né scarsa capacità di manovra politica.
Se un provetto simulatore come Giulio Andreotti è stato spesso paragonato a un altro grande romano di nome Giulio, il cardinal Mazzarino, per Amato viene fatto il parallelo con Charles Maurice de Talleyrand acuto e astuto precursore dei tempi che cambiano. E’ un laico che piace anche alla Chiesa (Talleyrand invece fece il percorso contrario). Ma che non piace, non abbastanza, alle proprie truppe. Troppe poltrone, troppe parti nella tragicommedia della politica all’italiana? Solo chi non ha un passato non è oppresso dal proprio. Amato ne ha più di uno e nemmeno lui riesce più a tenerli a bada.