Un po’ tecnico, un po’ politico. Esponente dell’austero governo del Professor Monti, il ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca è uno che la vita di partito l’ha respirata davvero. Banca d’Italia e Frattocchie. Cattedra alla Bocconi e militanza con i giovani comunisti. A quella rigida distinzione tra tecnici e politici che da un anno e mezzo sembra scandire la vita di Palazzo, Fabrizio Barca ci passa sopra con disinvoltura. E chissà che non sia questa la chiave giusta per scalare la segreteria del Partito democratico.
Già, perché Fabrizio Barca da Torino, classe 1954, ormai sembra aver deciso. Vuole candidarsi a guidare il Pd. Lo lasciava intendere da tempo, ieri è stato ancora più chiaro. In un’intervista alla tv del Fatto Quotidiano il ministro ha chiarito che «il Pd è l’unico partito del cambiamento che c’è in Italia». E che «il Pd è il partito a cui una persona di sinistra come me guarda». Proprio lui, che curiosamente al Pd non è neppure iscritto. Intanto sta già preparando il suo manifesto politico. A breve scioglierà ogni riserva. Presto, ma non il 18 aprile, quando il Parlamento in seduta comune inizierà a votare il nuovo presidente della Repubblica. Quel giorno è in programma a Palazzo Venezia un convegno per ricordare la figura del padre, scomparso lo scorso anno. Un’occasione in cui non ci sarà spazio per le ambizioni e i progetti personali.
La figura del padre Luciano gioca un ruolo importante in questa storia. È a lui che il ministro Barca deve le radici nel partito comunista. Luciano, partigiano, è stato parlamentare del Pci e direttore di Rinascita e dell’Unità. Dietro le sue orme il figlio Fabrizio segue la trafila. Il partito, la Fgci, le sezioni, la militanza, le manifestazioni. Chissà, magari sarebbe diventato un altro Massimo D’Alema. E invece un giorno decide di anteporre lo studio alla politica. Un’illuminazione? Inizia qui la strada del burocrate. Anzi, del “servitore delle istituzioni”. Laurea a Roma in Scienze Statistiche, master a Cambridge. Alla fine degli anni Settanta Barca entra nel servizio studi di Banca d’Italia e subito lo mettono sotto a studiare quello stranno fenomeno del capitalismo di territorio, i distretti industriali allora misconosciuti di cui tanto si parlerà negli anni a seguire. Una decina di anni più tardi diventa dirigente. Il curriculum è lungo e di tutto rispetto. Le cattedre alla Bocconi, Parigi, Roma, Parma, Urbino. Visiting professor al Mit di Boston e Stanford. Dagli Stati Uniti tornerà con una perfetta padronanza della lingua inglese. La moglie Clarissa, invece, l’aveva già trovata in Inghilterra.
Barca è pronto per tornare alla politica? Sembra di sì. L’obiettivo è la segreteria del Partito. Nessun timore, alle lunghe scalate il ministro Barca è abituato. Provetto camminatore di montagna, tanto da specificarlo nel curriculum sul sito del governo. «È appassionato di trekking», l’ha infilato tra un’Onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” e una laurea ad honorem a Parma. È presto per conoscere i dettagli del progetto. Nel partito c’è chi è pronto a scommettere su un ticket con Matteo Renzi (al sindaco Palazzo Chigi, al ministro la guida del Pd). Ma anche chi si attende una sfida alle prossime primarie. Con Barca alla testa di chi sogna una fusione tra la sinistra democrat e Sel. Del resto è lui che qualche tempo fa ha candidamente ammesso in una nota trasmissione radiofonica di aver votato «più a sinistra del Pd».
A dirla tutta il ministro non ha mai digerito la battaglia della rottamazione, la grande intuizione di Renzi. «Rottamare mi sembra un termine burocratico – raccontava all’Espresso qualche mese fa – Anzi, un atto di non responsabilità. Un cambiamento che avviene per sostituzione, non per merito. Ho un’altra idea: per essere migliori non basta essere fuori dal Parlamento o essere più giovani d’età. Il vero cambiamento avviene con la competizione». Più che ricambio generazionale, merito. E se lo dice Barca c’è da crederci. Lui che lo staff del suo ministero se l’è cercato pubblicando i bandi su twitter. Lui che due figli su tre li ha mandati a lavorare all’estero. Una in Sudamerica, uno in Inghilterra. «Perché non è che io ne sia felicissimo – spiegava tempo fa – ma finché non costruiamo un’Italia migliore, in cui non serve l’aiuto del padre per trovare posto (anche perché io non gliene do) fino ad allora stanno bene lì».
Ed è grazie al merito che Barca è riuscito a dare una svolta alla sua carriera professionale. Era il 2001, si trovava al ministero dell’Economia. Ci era arrivato con Carlo Azeglio Ciampi. Legatissimo all’ex presidente della Repubblica, nel 1998 lo aveva raggiunto a via XX Settembre per guidare il Dps – Dipartimento per le politiche di sviluppo. A lui il difficile compito di rilanciare il Mezzogiorno. Finita quell’esperienza dei patti territoriali, passati i ministri, Barca si era ritrovato in disparte (si dice che Tremonti gli preferisse Vittorio Grilli). Fino a quando nel 2001 il viceministro Gianfranco Miccichè si accorge di lui, lo apprezza. Tra i due nasce un rapporto di stima reciproca, seppure da posizioni politiche molto lontane. «Che vuole – ricorda Sergio D’Antoni, allora interlocutore di Barca da segretario della Cisl – quando ci sono la serietà e la competenza, le valutazioni politiche lasciano il tempo che trovano. E sul fatto che Barca sia una persona seria e valida nessuno ha mai avuto nulla da dire». Restituito il posto di capo dipartimento nel frattempo perduto, la carriera dell’ex giovane comunista riprende. Fino al 2006, quando diventa dirigente generale del ministero dell’Economia.
L’ultimo passo è l’ingresso nel governo Monti. Barca ci arriva anche grazie alla stima di Giorgio Napolitano. Qualcuno sostiene che sia stato il presidente della Repubblica a proporlo al Professore. La nomina fa infuriare la Lega Nord. «Il ministero della Coesione territoriale? Sarà il ministero del centralismo» gridava Roberto Calderoli. Di quell’esperienza, non ancora conclusa, passeranno alla storia le “incomprensioni” con il ministro Elsa Fornero emerse durante la riforma del lavoro (anche se nel governo parlano tutti bene di lui, «uno serio, che lavora parecchio»). Ma anche i risultati. Un dato: lo scorso gennaio l’Italia ha realizzato una spesa certificata dei fondi europei pari a 9,2 miliardi di euro in poco più di un anno. Più di quanto ottenuto nei precedenti 58 mesi. Ora, il ministro, è pronto per un’altra sfida.