Bankitalia, la fabbrica dei tecnici supplenti

L'eterna transizione italiana e il nuovo ministro dell'Economia. La nostra analisi

E se nemmeno la grande riserva non bastasse più? Sì, quella riserva di competenza, intelligenza, probità, ma anche duttilità tattica e acume politico che risiede in palazzo Koch, quartier generale della Banca d’Italia. Ancora una volta, in questo passaggio critico (uno dei più difficili per la fragile democrazia italiana da almeno un secolo in bilico tra avventura e reazione) sorge la tentazione di far ricorso a un saggio della banca centrale, come è già avvenuto con Guido Carli, con Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Tommaso Padoa Schioppa, in posizioni diverse: superministri del Tesoro, capi di governi tecnici e/o istituzionali, fino ad arrivare alla presidenza della Repubblica.

Adesso, il nome più gettonato è quello di Fabrizio Saccomanni, direttore generale, già candidato eccellente alla successione di Mario Draghi, grande esperienza internazionale, grande competenza economica, ma anche grande capacità di lavorare con gli altri, fare consenso, costruire amicizie, tutte doti essenziali per il tecnico che si fa politico. Se fossimo in una crisi acuta, eppur gestibile, sarebbe l’uomo giusto per formare un governo e uscire dall’impasse. Ma la paralisi politica si è fatta istituzionale e prima di superare lo stato d’eccezione ci vorranno mosse forse ancor più radicali.

La riserva esiste sempre, sia chiaro. Nel palazzone umbertino di via Nazionale costruito dall’architetto Gaetano Koch, non mancano i servitori della Repubblica. In fondo, la dialettica tra politici e tecnici è stata una costante della storia italiana. La classe dirigente della Destra storica era composta da una élite economica, militare, istituzionale passata alla politica (dall’industriale e banchiere Quintino Sella al generale Alfonso Ferrero della Marmora). I politici di professione prevalgono durante l’era della Sinistra, fino alla crisi del giolittismo. Ogni ulteriore tentativo di rinnovamento tecnocratico fallisce con l’avvento del fascismo il quale, però, a sua volta, in fasi critiche, si rivolge a finanzieri, imprenditori, economisti come Giuseppe Volpi conte di Misurata, Alberto Pirelli, Alberto De Stefani il professore in camicia nera, o a tecnocrati come Alberto Beneduce già socialista nittiano, senza la tessera del Pnf, plenipotenziario durante la grande crisi egli anni ’30 e governatore ombra della Banca d’Italia.

Naturalmente c’è il caso Einaudi. L’economista liberale avversario di Keynes arriva a palazzo Koch nel 1945 come risanatore. La banca centrale nelle mani di Vincenzo Azzolini non era stata in grado nemmeno di difendere dai tedeschi l’oro della patria. Ricerche storiche meno partigiane hanno riconosciuto all’allora governatore un tentativo di minimizzare di danni, ma le SS riempirono comunque i treni di lingotti e nei sotterranei di via Nazionale si vedono ancora le svastiche impresse nel metallo giallo. Einaudi sale al Quirinale nel 1948 sull’onda della radicale, coraggiosa e dolorosa politica di stabilizzazione post bellica. Mentre in Banca d’Italia va un intellettuale meridionale formatosi nella nidiata Beneduce: quel Donato Menichella che ha contribuito a creare l’IRI ed è riuscito a rafforzare la lira per la prima volta dopo la sciagurata quota 90, tanto da farle conquistare l’oscar per la valuta più stabile, riconoscimento assegnato dal Financial Times nel 1960.

Ma la vera svolta si deve a Guido Carli. È lui che trasforma la banca centrale italiana in un pensatoio di altissimo livello intellettuale, acclamato ovunque, è lui a introdurre la macroeconomia post keynesiana e i modelli americani (con l’aiuto di Franco Modigliani), è lui che rende l’inglese la seconda lingua di palazzo Koch (anche se non disdegnava il tedesco ed era fluentissimo in francese). Carli è una figura di grand commis molto transalpina, un uomo che proviene dall’élite bresciana (quella di papa Montini o di Giovanni Bazoli, per intenderci, anche se il padre Filippo era un professore universitario teorico dello corporativismo fascista), si forma nella stanze del potere economico pubblico (anche lui all’IRI), diventa un funzionario ad altissimo livello, ministro del commercio estero, poi viene catapultato in Banca d’Italia come direttore generale e un anno dopo come governatore.

Lì diventa lo snodo chiave tra alta finanza, capitale pubblico, governo, imprenditoria privata (in particolare Gianni Agnelli). Il suo acutissimo senso del potere lo porta ad intrattenere rapporti privilegiati con la stampa, quella ossequiosa e quella amica (con Eugenio Scalfari si cementa un’amicizia che darà vita a illuminanti pagine sull’Espresso firmate Bancor).

Poi, finirà nella Democrazia Cristiana, porrà la sua firma sotto il trattato di Maastricht, ma anche sotto la più rovinosa scalata del debito pubblico in tempi di pace. Un fallimento del quale troppo spesso non si parla.

Ciampi che, secondo Michele Fratianni e Franco Spinelli (autori della Storia monetaria d’Italia), non fu un grande governatore, ha dato un contributo essenziale come ministro del Tesoro a gestire l’estinzione della lira, la cui agonia egli stesso dovette sentenziare nel 1992. Ma soprattutto è stato l’ultimo presidente della Repubblica bipartisan, un ruolo che ha saputo gestire con abilità tattica e senso della missione. Antonio Fazio (grande governatore, sempre secondo Fratianni&Spinelli) ha coltivato anch’egli più volte l’ambizione di seguire le orme del suo predecessore. Ma, politicamente poco accorto, ai limiti dell’ingenuità, è stato massacrato da chi lo aveva sempre osteggiato: il mondo laico e massonico del nord, ma anche le vecchie volpi conservatrici e cattoliche sulle quale aveva fatto affidamento.

Che fine farebbe oggi un grand commis a palazzo Chigi o addirittura al Quirinale? Sfumato Mario Draghi, l’unico ad avere le stesse abilità di Carli (che del resto lo aveva assunto al Tesoro), c’è il rischio che la Banca d’Italia mandi i suoi uomini migliori al macello. Non perché non sono adatti, ma perché i tempi stanno cambiando molto radicalmente. Un pericolo non solo per i destini di persone che possono servire al meglio il loro paese, ma anche per l’indipendenza della banca centrale oggi messa sempre più in discussione.

La difficoltà di uscire dalla crisi, la pressione dei governi (lo si vede anche nel conflitto interno alla Bce), il cambio nello spirito del tempo (clamorosa la svolta in Giappone), il potere enorme, pressoché assoluto, che le banche centrali hanno assunto colmando il vuoto di leadership dei governi e surrogando una politica fiscale paralizzata per necessità e per scelta, tutto ciò ha aguzzato gli appetiti. Mettere mano alla cornucopia sta diventando la nuova grande partita di potere e anche chi non considera l’autonomia della banca centrale un dogma, non può non allarmarsi.

In Italia, è quel che vorrebbe fare Beppe Grillo. Ma attenzione, “stampiamo più moneta” è un refrain anche dentro il Pdl e affascina un Pd dove l’influenza dei grandi economisti orientati a sinistra (i Luigi Spaventa, i Claudio Napoleoni, i Padoa Schioppa, lo stesso Modigliani da sempre critico, ma aperto interlocutore) ha lasciato lo spazio a dilettanti infarinati con formulette da comizio. Non che manchino gli eredi di quella tradizione (per esempio Pier Carlo Padoan, oggi capo economista dell’Ocse con lunga esperienza al Fmi), ma un tempo erano suggeritori rispettati anche se non sempre ascoltati. Oggi sono voci che gridano nel deserto.

Le cose stanno così, purtroppo. E davvero val la pena di chiedersi se nell’interesse generale (o sistemico come si dice oggi) è meglio prestare i propri campioni per farsi maciullare nell’arena politica interna o preservarli per affrontare le nuove tempeste che arrivano dall’esterno; insomma, se i tecnici servono più per tenere a bada grillini, piddini e pidiellini, o per rispondere all’attacco della Grand Armée finanziaria pronta a dividersi le spoglie di quel che un tempo chiamavano il Bel Paese. Naturalmente, sono solo domande retoriche.

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