Sulla cosa ognuno dice la sua. C’è chi è a favore che ritorni e chi si indigna (e scrive lettere di fuoco ai giornali). Insomma, a Brescia si discute in modo animato: tutto da quando il sindaco uscente Adriano Paroli (Pdl) ha annunciato di voler riportare in piazza della Vittoria il “Bigio”, statua simbolo dell’epoca fascista, abbattuta dopo la guerra.
Era in conto che la decisione, delicata sul piano simbolico, avrebbe potuto urtare gli animi più sensibili. Ma nessuno pensava che diventasse un caso di questa portata. Da quando è sorto, non è più stato possibile fermarlo: ha superato i confini delle piazze, è finito sui giornali nazionali e poi su quelli stranieri, ha suscitato (e suscita) dibattiti, critiche, e polemiche. E ora la città è divisa in due: chi si mostra accomodante, perché “il fascismo è finito per sempre”, e non sarà una statua a riportarlo in vita. E chi, fermo, il Bigio in piazza Vittoria non lo rivuole nel modo più assoluto, perché “anche i simboli hanno il loro peso”.
Forse, sono polemiche che sanno di elezioni. Almeno, questo è il parere di Paroli, che del Bigio non ne vuol sentire più. «Tanto per cominciare, la decisione è stata presa dalla giunta precedente», puntualizza. «E poi, in generale, fa parte di un piano di recupero della piazza», che si intreccia con la costruzione della fermata della metropolitana. «Si era pensato di ripristinare la statua mettendola davanti al Palazzo delle Poste, ma è intervenuta la Sovrintendenza che ha deciso di riposizionarla nel contesto originario, imponendo di ricostruire anche la fontana che le era vicina», spiega. Si tratta di «Un recupero in chiave filologica». Da parte sua, i problemi sono altri. «Ci hanno dato dei fascisti. Hanno detto che Brescia è fascista. Come si permettono? È un clima irrespirabile creato da chi ci attacca, che strumentalizza la vicenda solo per avere dei voti in più», così sostiene.
Che la tensione sia cresciuta, è innegabile. In Consiglio l’opposizione si è schierata contro la delibera, parlando di revisionismo. Nel frattempo l’Anpi, l’associazione dei partigiani, ha promosso una raccolta firme per fermare il ripristino della statua, oltre a una serie continua di manifestazioni e proteste. «La ricollocazione dello scadente manufatto», si legge nella petizione, «si risolverebbe solo in una riproposizione nostalgica e strumentale dell’ideologia fascista». Oltre che in una spesa consistente. La stima la fa Emiliano Del Bono, leader del Pd locale e candidato alle elezioni, e si aggira intorno ai 460mila euro. Secondo Mario Labolani, (ex An) assessore ai Lavori pubblici e grande sostenitore del recupero della statua, sarebbe molto meno. Circa 250mila euro.
In ogni caso, al momento il braccio di ferro è sospeso: la giunta, visto il clima incandescente, il 17 aprile ha deciso per lo stop ai lavori sulla statua. Rimandati, da metà aprile, a maggio. E poi ancora, a dopo le elezioni. All’insaputa anche di chi stava restaurando la statua e ha scoperto la cosa dai giornali. Intanto, la patata bollente viene lasciata al prossimo sindaco (ancora Paroli, che si è ricandidato? o lo stesso Del Bono?), che potrebbe anche decidere di non fare più nulla. I soldi già spesi, sono andati per sempre. Ma la polemica sugli sprechi è solo l’ultima cosa. Quello del Bigio è un problema di visione della storia.
Creata da Arturo Dazzi nel 1932, scolpendo più di sette metri di marmo di Carrara, la statua rappresentava un giovane aitante, nudo, con un braccio in vita e l’altro teso verso il basso. A Mussolini piaceva, tanto che l’aveva nominata “Era Fascista”. Ma nella città era prevalso il nome Bigio, forse dal marmo, e non è mai cambiato. Era stata pensata per essere collocata in Piazza della Vittoria, che ha tutti edifici di epoca fascista. Dalla Torre della Rivoluzione, squadrata e massiccia, al Palazzo delle Poste, che mostra nei fregi la “M” di Mussolini, al Palazzo delle Assicurazioni. Dietro, c’era il Caffè Impero, nome senz’altro evocativo. Il Bigio, nelle geometrie della piazza, doveva funzionare da contraltare dell’arengario (che c’è ancora) in marmo rosso, era vicino a una fontana e proprio davanti al Caffè che, narra la leggenda, da quel momento venne chiamato “caffè de le ciape”, in riferimento alle natiche, nude, che si vedevano da lì.
Proprio per la sua nudità, esibita e fiera, il Bigio finì fin da subito al centro delle polemiche. I preti proibivano il passeggio alle signore e ai bambini davanti alla statua, le proteste crescevano; si risolse di fabbricare una foglia di fico per coprirlo, suscitando altre polemiche. Ma il suo essere simbolo del regime non era mai dimenticato. Dopo la guerra, divenne il bersaglio principale degli sfregi. Fu scheggiato da cariche di dinamite e poi, nel 1945, venne rimosso. Il giovane atleta, che balzava «avanti in un senso irresistibile di movimento, lo sguardo fisso ad una sicura meta», come recitavano le riviste fasciste, venne impacchettato e portato nel chiuso di un magazzino, per oltre 70 anni. La piazza, a parte la fontana, restò uguale.
Nella sua assenza, si colorò di leggenda: «Suscitava polemiche perché all’inizio aveva il braccio alzato nel saluto fascista. Poi, finita la guerra, lo hanno abbassato, per farlo sembrare più “operaio”», spiega uno dei commercianti di piazza della Vittoria. Una ricostruzione fantasiosa. Per un altro, il Bigio «era proprio brutto, da come me lo raccontava mio padre». E che, cosa non vera, «Era uno degli scarti del Foro Mussolini», trasportato a Brescia come ripiego. In entrambi i casi, però, di fronte alla decisione del sindaco di riportarlo in piazza, prevale lo stupore. «Ma perché andarsi a cacciare in questo guaio? Non c’era nessun bisogno». E allargano le braccia. Sulla «filologia del recupero» sorvolano, poco convinti. Sull’opportunità della cosa in sé, restano stupiti. «anche perché, viste le contestazioni, il Bigio non dura a lungo». E sulle polemiche ideologiche, uno dei due si mostra scettico: «tutta la piazza è fascista, e ha simboli fascisti. Andrebbe abbattuta anche questa?», si chiede.
È un vecchio ragionamento, portato all’estremo, che però conduce al cuore della vicenda. Se lo chiedeva, in un suo volume monografico sul Bigio, anche lo studioso Franco Robecchi, che non comprende l’irrazionale discriminazione subita dal Bigio: «Si pensi […] che non subì alcuna condanna il ben più compromettente arengario». Anzi, pur avendo incise decorazioni di balilla con saluto romano, venne «preservato con cura». E sulla stessa onda si mette anche l’assessore Labolani: il 9 aprile, in un velenoso comunicato stampa, risponde all’articolo (molto critico) del Guardian, chiedendo alla giornalista di «non venire a insegnarci cos’è il nostro passato». Rivendica l’antifascismo di Brescia e interpreta il recupero della statua solo in un’ottica estetica, una «operazione filologica», appunto, senza intenzioni nostalgiche.
Sulla sua buona fede, si può anche credere. Il fascismo appartiene al passato. Ma c’è un punto che va oltre la storia del Bigio e che mette in luce un problema più complesso: l’autoassoluzione degli italiani. Come spiega Filippo Focardi, docente di Storia Contemporanea all’Università di Padova. «Episodi come questo di Brescia, e più ancora come il dibattito sul monumento a Graziani, che è già diverso, rendono manifesto un fatto: che l’Italia non ha ancora fatto i conti con la sua storia».
Lo illustra nel suo libro “Il cattivo tedesco e il bravo italiano”, dove racconta la grande operazione culturale messa in atto nel dopoguerra: gli italiani, alimentano il mito della propria innocenza e riescono a uscire dalla guerra, che pure avevano perso, quasi puliti, consegnando tutte le responsabilità agli alleati tedeschi. «È vero che la Germania si è macchiata di colpe più gravi, ma in Italia si ignora tutto. Non si considerano gli eccidi nella ex Jugoslavia, o in Grecia, e in Africa. Quando si è riaperto il caso delle Fosse Ardeatine, con Priebke, o a Stazzema, si sono fatti processi ai tedeschi, ma non agli italiani». A causa di un’amnistia appoggiata anche dal partito comunista, che voleva cancellare il passato.
In Italia «non c’è mai stata una Norimberga, che rendesse chiaro le colpe e le responsabilità, pesanti, degli italiani» e questa è la differenza con la Germania. Per questo «qui può capitare che esponenti politici di peso minimizzino il passato. È successo con Berlusconi, nell’ultima campagna elettorale, quando ha detto che “Mussolini fece cose buone”. E riprendeva un sentire comune». In realtà, negli anni della sua ascesa, il fascismo «era già votato alla guerra. Era nel suo Dna, fin dall’inizio. E fu più violento dell’ascesa del nazismo. Non era solo olio di ricino o manganellate. C’erano uccisioni, era una guerra». La mancanza di consapevolezza, che preoccupa molto gli stranieri (e il Guardian lo dimostra) «andrebbe riparata a cominciare dalla scuola: occorrono più strumenti e più chiarezza». E poi «servirebbe anche un gesto alto: una richiesta di scuse alla Grecia, ad esempio. Magari in occasione della visita del presidente della Repubblica a Cefalonia. Perché non ci sono solo gli italiani uccisi». Si potrebbe cominciare da lì. Ammettendo le proprie colpe, e accettando la verità. «Gli italiani non furono buoni, e non furono vittime dei tedeschi».
Anche Mussolini, quando vide la disfatta, era molto deluso dal suo popolo. Ma per motivi opposti: «Lo odiava, lo disprezzava. Soprattutto i napoletani. Perché non si erano dimostrati all’altezza del suo ideale», che somigliava così tanto alla statua di piazza della Vittoria.
Ma l’uomo grande dell’era fascista, il Bigio, che guardava tutti dall’alto dei suoi sette metri, è stato abbattuto. Adesso giace in un magazzino, legato, restaurato a metà. Anche dimenticato. Riportarlo in piazza è prematuro, anche se fatto in piena buona fede. Adesso potrebbe sembrare che si banalizzi un fatto, cioè che, con la statua, è stata messa a terra tutta un’epoca e una visione del mondo. Ed è un bene. Il fascismo è caduto con lui. E non deve rialzarsi, nemmeno così.