«Questo è un governo politico». Punto. Né aggettivi né perifrasi. Nemmeno «governo di servizio» la definizione usata da Enrico Letta al momento di ricevere l’incarico. Giorgio Napolitano va al sodo per tagliar corto con tutte le polemiche della vigilia, ma non solo. Il presidente della Repubblica ha chiaro in mente che un ciclo si è chiuso. Egli stesso ha contribuito a farlo. E la missione che si è dato, accettando il secondo mandato al Quirinale, è di aprire una fase nuova. Il gabinetto Letta ha questo scopo, lo si capisce nel modo in cui è stato formato, così come nella composizione dei ministeri: un equilibrio di partiti, generi, generazioni, un dosaggio attento tra politici di professione ed esperti trasformati in politici, come Fabrizio Saccomanni, il direttore generale della Banca d’Italia che è riuscito a difendere la poltrona di Quintino Sella alla quale da tempo sembrava destinato.
La fase dei tecnici puri al comando si è chiusa. Non è solo la delusione per gli esiti dell’esperimento Monti. C’è qualcosa di più. Quell’escamotage molto italiano, quell’uso furbetto di chi può fare il lavoro sporco senza bruciarsi, perché non deve rispondere al proprio elettorato, si accompagna alle fasi di passaggio. È accaduto con la fine della prima repubblica. Dopo quello di Giuliano Amato, ultimo governo politico con maggioranza pentapartito retto da un politico con competenze tecniche, è arrivato Carlo Azeglio Ciampi dalla Banca d’Italia, scelto da Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica che a sua volta sembrava una soluzione di ripiego, quasi tecnica, scaturita dalla bocciatura di Arnaldo Forlani e sull’onda emotiva delle bombe mafiose.
Quello di Ciampi è stato chiamato «governo istituzionale», infatti all’origine ne facevano parte esponenti di tutto l’arco costituzionale, anche se Pds e Idv ritirarono i loro ministri subito dopo il giuramento il 28 aprile 1993, perché non venne concessa l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi. È durato un anno. Poi è sceso in campo Silvio Berlusconi un imprenditore (un tecnico, per molti aspetti, dell’informazione e del consenso, un persuasore non del tutto occulto). Ha vinto, ha governato otto mesi ed è arrivata un’altra soluzione di emergenza con Lamberto Dini anche lui dalla Banca d’Italia, per colmare il vuoto e preparare una nuova fase, quella dell’Ulivo, la maionese tra ex democristiani ed ex comunisti che impazzirà del tutto cinque anni dopo, nel 2001. Dini resta a palazzo Chigi un anno e 4 mesi; il suo governo è l’unico a potersi definire pienamente tecnico perché composto da ministri che non provengono direttamente dai partiti.
Nel 1996 il primato della politica prende il sopravvento con una figura a cavallo tra i due mondi come Romano Prodi. E con lui torna Berlusconi. Il suo ciclo comincia nel 1994, tuttavia il Cavaliere va davvero al potere solo con il secondo millennio. Metà della cosiddetta era berlusconiana è caratterizzata da governi di centro-sinistra. Tecnici compresi. Perché, al di là delle definizioni, non è stato certo di destra il gabinetto Ciampi che fece l’accordone con i sindacati né tanto conservatore era il gabinetto Dini che realizzò la riforma delle pensioni: i suoi esperti diventati ministri erano espressione di un centro che guardava a sinistra, compresa Susanna Agnelli (prima donna ministro degli esteri) da sempre legata al partito repubblicano come il fratello Gianni.
Anche Monti arriva per gestire un passaggio impossibile con il minor danno possibile. Esce dal Borsalino di Napolitano nel momento in cui crolla Berlusconi e andare alle elezioni sotto l’attacco dei mercati finanziari sembrava un suicidio. Bisogna sempre ricordare che l’idea del capo dello Stato e dello stesso Monti era un governo di grande coalizione con i leader di partito dentro come vice presidenti del Consiglio. Berlusconi indicò Angelino Alfano. Pier Ferdinando Casini era super pronto. Pier Luigi Bersani disse no. A quel punto l’esperimento venne depotenziato, ridimensionato, castrato.
Monti ha mantenuto licenza di uccidere, per così dire, finché tutti hanno avuto paura della bancarotta. Passata la nottata, hanno cominciato a tirargli il tappeto da sotto i piedi. A destra scegliendo l’Imu come cavallo di battaglia, a sinistra con gli esodati e il mercato del lavoro. Tutti problemi veri, sia chiaro, ma usati come meri strumenti di propaganda perché nessuno ha mai saputo suggerire alternative coerenti.
Alla fine è stato Berlusconi a staccare la spina, ma la corrente non arrivava più. Nell’estate del 2012 lo spread era già risalito a livelli di paura e l’Italia è stata salvata da Mario Draghi. Nessuno lo ricorda, è la memoria corta dei quaquarquà. Ma le cose stanno esattamente così.
Vedremo se il governo Letta riuscirà nel compito che Napolitano gli ha assegnato. La riforma della politica non può che spettare ai politici. Ma anche l’economia oggi più che mai, va gestita politicamente. Meno spese, meno tasse, più sviluppo, come ha promesso Saccomanni nelle sue prime dichiarazioni: non si fanno con il pallottoliere, ma con il consenso. È vero anche nello scacchiere europeo dove ci sono compiti da far tremare i polsi. Negoziare spazi di manovra con la Merkel, garantire a Draghi che non ci ha salvato invano e proteggerlo dal contrattacco della Bundesbank, costruire un fronte sviluppista con la Francia contro la furia deflazionista di una Germania dove si fa strada il rifiuto dell’euro e la nostalgia del marco, tutto ciò spetta direttamente al capo del governo e, per le sue competenze, anche al capo dello stato.
Politique d’abord. Torna d’attualità quel che diceva un grande tecnico che ha guidato a lungo la politica da fuori, dalla Banca d’Italia, e da dentro, come senatore dc e ministro del Tesoro: Guido Carli. Quando nel 1975 lasciò la poltrona di governatore a palazzo Koch, mise nella bottiglia un messaggio tranchant come era solito fare: «L’Italia non ha corrisposto nella sua classe dirigente alle attese che io e molti con me avevamo in essa riposto… Ma il governo è sempre e soprattutto un fatto politico, risultante da equilibri politici. Un governo di tecnici o è una trovata qualunquista o è una soluzione sovversiva». In fondo, Napolitano, che fin dai tempi in cui era responsabile economico del Pci, ha sempre apprezzato Carli, non la pensa in modo molto diverso.