Di Pietro, Tremonti, Casini, Fini esodati senza futuro

Un tempo ministri dell’Economia, degli Esteri, presidenti della Camera e vicepremier

Sono gli esodati della politica, gli scomparsi del Parlamento, uomini che hanno segnato un’epoca lunga vent’anni, un ciclo infinito chiamato Seconda Repubblica. Da protagonisti che erano, sono ormai precipitati giù giù nel sottoscala del Palazzo e qualcuno dalla politica è persino ruzzolato tragicamente fuori per sempre.

Antonio Di Pietro, Giulio Tremonti, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, un tempo ministri e superministri dell’Economia, presidenti della Camera, vicepremier, ministri degli Esteri: di quella vecchia foto post Manipulite che ritrae tutti insieme questi ormai ex potenti, alternamente amici e nemici, attori protagonisti della commedia politica e del baraccone televisivo, oggi rimane solo Silvio Berlusconi, l’unico ancora in sella, settantasette anni e una evidente e radicata tendenza all’immortalità (politica, s’intende). Che fine ha fatto Di Pietro che del Cavaliere voleva essere la nemesi? E Tremonti, che era il “genio” dell’economia, lo “stupor mundi” che all’estero – così amava autorappresentarsi – ci veniva invidiato? E come se la cava adesso il povero Fini fuori dal Parlamento, lui che tanto in alto era sembrato a un certo punto poter arrivare? E che dire di Casini, l’eterno e troppe volte illuso delfino del Cavaliere di Arcore, lui che ha visto i propri capelli imbiancare nell’attesa d’essere finalmente incoronato?

L’Italia del 2013, quella che si avvita nella crisi, seppellisce i protagonisti del 1994, gli attori principali del suo più recente e gaudente passato, gli uomini che ha votato, amato e odiato. E lo fa senza nemmeno una lacrima, senza un pensiero, senza soffermarsi nemmeno un momento se non sul destino dei singoli – forse trascurabile – almeno sul rivolgimento pazzotico che ha comportato l’inabissarsi di questi volti così familiari.

Non votando per Antonio Di Pietro (o per Ingroia, per Michele Emiliano, per De Magistris…), gli italiani hanno finalmente rifiutato l’idea che questo paese sia a rischio penale, che vivere significhi commettere reati, che la politica sia materia di Corte d’Appello. Hanno bocciato la trasformazione del magistrato in un ingegnere sociale, e della tecnica del pm in ideologia. E tuttavia in questo stesso Parlamento dal quale è stato cacciato Di Pietro, entra, accompagnato dalle fanfare, il gruppo di Beppe Grillo, che ha divorato, assimilato, annacquato, e cancellato proprio Antonio Di Pietro. L’ex magistrato incarnava quel bisogno collettivo di pulizia e di correttezza che presto degenerò in violenza plebea, era il leader che voleva raccogliere, esaltare e alimentare il giustizialismo peronista, non tutto di destra e non tutto di sinistra, ma era pure il leader di un partito, di una organizzazione individuata e fisicamente riconoscibile, un movimento se vogliamo “normale” appartenente alla fisiologia democratica che è fatta di sedi, tessere, insediamenti, congressi: fisicità insomma. Cosa che l’inafferrabile Movimento 5 Stelle, che pure ha riplasmato la stessa idea del giustizialismo dipietresco, in tutta evidenza – e con rivendicato orgoglio – non è: non ha sedi, non ha insediamenti, non ha luoghi fisici. Ci si incontra, e i si conta, su Internet. Ed è anche uno strano animale ideologico, il Movimento 5 Stelle: ambientalista, pauperista, un po’ giustizialista ma neanche troppo, antitasse, persino abbastanza antistato come lo era (o lo è ancora) il berlusconismo d’antan. Insomma una cosa strana, aliena persino. Eppure l’Italia caotica e povera del 2013 che ha premiato Grillo e ucciso Di Pietro non ha tempo di pensare e di pensarsi, di riflettere su sé stessa, di capirsi o di guardarsi allo specchio, di accorgersi di cosa cambia – è la fine del giustizialismo o solo la morte politica dell’Idv? – e di come avviene questo cambiamento: il paese si gira stancamente dall’altro lato, perché i guai sono troppi e il tempo troppo poco, e non importa che sia finito il partito dei giudici, che le procure non si muovano più come una falange macedone, che l’epoca dei magistrati in politica sembri essersi conclusa per lasciare il campo ai comici e ai clown in politica. Insomma non importa quale sembianza abbia assunto il nuovo populismo. Gli italiani votano, sì, e hanno premiato Grillo e affondato Di Pietro, ma sembrano osservare gli eventi, che pure essi stessi hanno determinato, senza indovinarne le novità e le trasfigurazioni, disperati come sono.

Pensate a cos’è stato, per esempio, Giulio Tremonti. Immaginate cosa significa la lugubre eclissi dell’uomo che un tempo – amico di Umberto Bossi e di Silvio Berlusconi – fece sognare ogni possessore di buon reddito e l’intera massa dei padroncini veneti, il ministro nel cui nome furono innalzati capannoni anziché cattedrali, insomma, colui che segnò e incarnò e predicò il tempo felice del sogno delle partite Iva al potere intestandosi la Tremonti bis. Ebbene mentre i padroncini veneti sono in rivolta sfiancati dalla crisi e mentre le partite iva agitano il loro scontento sul mercato elettorale, Tremonti si è inabissato, ma prima di sparire ha pure cambiato sé stesso, ha provato a riverniciarsi per rendersi (inutilmente) adatto ai nuovi tempi. Da tributarista aveva aiutato a eludere “il fisco”, poi da ministro era diventato lui stesso “il fisco”; e poi, a sessantacinque anni, nella sua ultima fase aveva deciso di fare saltare in aria l’intero sistema della finanza internazionale, fisco compreso, con un libro intitolato “uscita di sicurezza”: un botto rivoluzionario, come nella scena conclusiva di Zabriskie Point. Boom! “Anche le banche rapinano”. E ancora: “Ho studiato i libri di Toni Negri”. E poi: “Bisogna fermare la finanza degenerata”. Prima di sparire con un suo partito alleato della nuova e debolissima Lega di Roberto Maroni, Tremonti era entrato persino tra i guru di Michele Santoro, celebrato come un Adriano Celentano qualsiasi. E in questa sua resa finale, sugellata dal tonfo nell’assoluta irrilevanza politica, c’è l’Italia che non riesce mai a chiudere la storia di nessuno, spenna le vicende di ciascun protagonista fino alla decomposizione, senza mai sigillare, finire, superare. Tremonti si era convinto, da solo, di essere l’uomo del destino, e l’Italia che pure non capisce sé stessa e i fenomeni che la squassano, gli ha però ricordato i tempi in cui viviamo, il martirio lento e doloroso dello spelacchiamento. La crisi chiama crisi.

E si arriva così alla furberia punita di Pierferdinando Casini (e un po’ di Gianfranco Fini), che nemmeno le larghe spalle di Mario Monti – ex gigante che periclita pure lui – hanno saputo preservare dall’urto del declassamento economico e civile che tutto sembra abbattere e divorare talvolta, per assurdo che possa apparire, facendo persino giustizia di una certa indole parassitaria della politica. Capo di un residuale partito di opposizione, l’Udc, una piccola satrapia personale composta da una ventina di parlamentari, la dimensione di Casini è sempre stata la nicchietta, il cortiletto da correntina dc, la politica dei due forni (o del doppio ascaro) praticata senza troppo successo e navigando a vista negli stretti canali lasciati liberi dalla politica bipolare italiana. Né a sinistra né a destra, ma consegnato ostinatamente alla lenta funzione gastrica del “centro”, prigioniero del suo ombelico, che è il “centro” del corpo umano in un mondo che va invece avanti con gli estremi: i piedi per scappare e la testa per pensare. Un moderato, all’eterna ricerca di altri moderati, sempre a un passo dalla grande meta: la presidenza della Camera (conquistata) e poi a lungo il Quirinale, la presidenza della Repubblica (da conquistare). Sogni ormai svaniti, evaporati tra le lacrime, ambizioni frustrate per sempre. Oggi non esiste più nemmeno l’Udc, e con Casini si è esaurita l’ultima batteria di polli ex democristiani, getti vegetali di antica pianta ormai seccata forse per sempre.

Come è finita anche la storia di Fini e del Movimento sociale, di quella fascisteria che sembrava essersi evoluta ed emancipata: forza di governo, occidentale e responsabile. Si chiamava Alleanza nazionale. Non c’è più niente, nemmeno un partito, un simbolo, una bandirea, un manifesto, un libro, uno straccio di intellettuale, nemmeno un deputato. Rimane un appartamento a Montecarlo e una brutta storia politica finita persino peggio. Si conlude così, con Silvio Berlusconi che sopravvive a tutti i comprimari della sua lunga parabola politica, la seconda Repubblica. Ma si chiuse senza che intanto ne sia cominciata una Terza. L’Italia non vede, si gira e guarda altrove, senza un rimpianto o, chissà, nemmeno un rigurgito di livore ben indirizzato nei confronti di uomini che pure avevano incarnato dei miraggi di progresso cui milioni di persone avevano dato credito. Gravata dai suoi ritardi e dalle sue irredimibili tare, dai suoi problemi economici, dalle sue manie depressive, l’Italia non se n’è accorta nemmeno. Ma nelle facce degli esodati della politica, dei suoi ex potenti ormai caduti in disgrazia, ha già bruciato l’effige della Seconda Repubblica che era figlia di Tangentopoli, delle manette, del giustizialismo e delle mani pulite ma anche delle televisioni di Arcore, della vita patinata, dell’ottimismo di Forza Italia, della ricchezza diffusa e di un nuovo orizzonte di sviluppo per tutti.

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