Grilli, l’amico di Tremonti che dice sempre di no

Il ministro dell’Economia custode del rigore di bilancio

Alla fine, anche Vittorio Grilli ha ceduto. Corrado Passera porta a casa con il decreto sui pagamenti della Pa un provvedimento che aveva sbandierato come vessillo del proprio mandato al ministero dello sviluppo, ma era stato costretto a ripiegare mestamente sotto l’incalzare del cerbero dei conti. E tuttavia, l’inflessibile guardiano del disavanzo ha imposto ancora una volta le sue condizioni. Durante i quindici mesi del governo Monti, l’ex direttore generale del Tesoro poi promosso ministro, non si è fatto molti amici. Anche a dispetto del presidente del consiglio, Grilli ha ripetuto come un mantra “non abbiamo un quattrino”.

Lo ha ribadito a ogni ministro che bussava a casa: niente sgravi per i nuovi cantieri, nessuna riduzione del cuneo fiscale. E nemmeno di fronte allo scandalo dei 90 miliardi che l’amministrazione pubblica deve ai propri fornitori, s’è mostrato disponibile a mollare. I 40 miliardi in due anni annunciati dal consiglio dei ministri non dovranno pesare sul disavanzo, perché verrano usati alcuni escamotage, facendo entrare in campo la Cassa depositi e prestiti. In ogni caso il Tesoro ha ottenuto licenza di stangata se il deficit andrà sopra il 3%, limite invalicabile per non subire ancora la procedura d’infrazione.

Grilli chiude la propria esperienza di governo con tanti scivoloni, anche gravi, ma conferma la nomea di custode del rigore. Non gli gioverà se volesse entrare in politica, ma senza dubbio rappresenta un atout da giocarsi soprattutto in campo internazionale. Per ben due volte ha mancato il più importante dei propri obiettivi: guidare la Banca d’Italia. Adesso attende un risarcimento per aver svolto il lavoro più duro, un vero dirty job. Sa bene che la patria, questa patria, non gli sarà riconoscente. Ma senza dubbio è un uomo in grado di giocare su uno scacchiere più vasto.

Golfista di talento (l’altra sua passione sportiva è per l’Inter), è abituato a lunghe meditazioni solitarie, prima di assestare il colpo vincente e andare in buca. A parte il vino di qualità, verso il quale dichiara “un amore intenso e coinvolgente”, sembra nutrirsi di barrette energetiche come si dice faccia Mario Draghi. Grilli ha una solida preparazione accademica e talvolta la ostenta, ma i lunghi anni al Tesoro gli hanno fatto conoscere dall’interno i meccanismi del potere e le tecnicalità attraverso le quali viene esercitato.

Venuto al mondo il 19 maggio 1957, sotto il segno del Toro, il giovane Vittorio si forma con valori e riti della borghesia lombarda: il padre imprenditore, la madre Maria Ines Colnaghi biologa all’Istituto dei tumori, una moglie americana, Lisa Lowenstein, dal quale si è separato (e che sarà fonte di guai), una compagna con la quale ha una figlia. I genitori lo avrebbero voluto medico, ma lui molla per la Bocconi. Laureato, va all’università di Rochester (New York State) con una borsa di studio Bankitalia. Poi a Yale dove tiene corsi a soli 29 anni e all’Università di Londra.

Nel 1994, si dischiudono le porte del Tesoro. Ministro è Lamberto Dini già direttore generale della Banca d’Italia. Ma gli sponsor sono Luigi Spaventa e Francesco Giavazzi. Quando quest’ultimo lascia la commissione di esperti che assiste i ministri in via XX Settembre, il giovane Grilli sembra la persona più adatta. Sono gli anni in cui viene smontato lo stato imprenditore, fonte e sostegno di quel che veniva chiamato “il sistema di potere democristiano”. Mani pulite ha tagliato le teste. Silvio Berlusconi è già sceso in campo ed entra a palazzo Chigi, anche per soli otto mesi. Romani Prodi lascia l’Iri e prepara la propria candidatura, spinto dal proprio mentore Beniamino Andreatta e da Giovanni Bazoli.

Il Professore vince le elezioni nel 1996, e a gestire i disastrati conti dello stato chiama Carlo Azeglio Ciampi, ex governatore della Banca d’Italia e primo ministro per un anno, il quale si circonda di consiglieri fidati (verranno poi definiti Ciampi boys), presi per lo più da via Nazionale. Tutti tranne Grilli il quale, rimasto al Tesoro sotto la direzione di Draghi, gestisce la campagna delle grandi privatizzazioni. Nel 2000, mentre si consuma con Giuliano Amato l’eclisse dell’Ulivo, l’economista milanese torna alla Bocconi e poi va al Crédit Suisse First Boston. Ma è troppo giovane per emulare Cincinnato. Giulio Tremonti, diventato ministro dell’Economia, lo chiama alla ragioneria dello Stato per sostituire un uomo istituzione come Andrea Monorchio.

Una posizione ingrata, in cassetta sotto il fuoco, mentre la diligenza viene regolarmente assaltata ad ogni legge finanziaria. Lo prende di petto Gianfranco Micciché, viceministro con la delega sullo sviluppo e il Mezzogiorno il quale vuole allargare i cordoni della borsa. E finisce nella tenaglia tra Gianfranco Fini e Tremonti che nel 2004 costa il posto all’inquilino di via XX Settembre. Il sostituto, Domenico Siniscalco, nomina Grilli direttore generale del Tesoro quando Draghi va in Banca d’Italia. Una staffetta quasi obbligata. E lì resta con il ritorno di Tremonti, ma anche con il governo Prodi e l’arrivo di Tommaso Padoa Schioppa. Insieme s’inventano la spending review sul modello britannico, entrambi difendono “il tesoretto” al quale tutti vogliono mettere mano. Con l’implosione dell’ultimo governo di centro-sinistra, Grilli resta in stand-by, ma Tremonti gli conferma la fiducia. Intanto è arrivato il grande crac e la sua sembra davvero una missione impossibile: tenere i conti lontani dalle mire dei ministri e seguire le direttive dell’Unione europea e della Bce.

Almeno due innovazioni di ingegneria finanziaria portano la sua impronta. La prima si chiama Ctz, certificati del tesoro a zero coupon introdotti nel 1998. Sono titoli a 24 mesi, riservati agli operatori istituzionali, che non danno cedole, quindi si guadagna dallo scarto tra il valore all’emissione e quello alla scadenza. Hanno avuto un buon successo proprio negli anni in cui il debito pubblico italiano doveva scendere con l’obiettivo di entrare nell’euro. La seconda novità rappresenta il primo elemento istituzionale per consentire di affrontare un default, o quasi, in un paese che aderisce all’euro: il Fondo di stabilizzazione. Viene messo a punto da Grilli, lanciato da Tremonti e sposato da Berlusconi al consiglio europeo del maggio 2010 che ha deciso di mettere a disposizione fino a 500 miliardi di euro per i paesi in difficoltà.

Grande capacità di manovra, Grilli l’ha dimostrata in alcune intricate vicende di nomine bancarie, terreno lastricato di uova sul quale un grand commis deve muoversi in punta di piedi. E’ stato lui a portare alla Cassa depositi e prestiti, braccio armato del Tesoro, Giovanni Gorno Temprini, ex amministratore delegato di Mittel, finanziaria che fa capo a Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Banca Intesa, l’istituto creditizio azionista numero uno di Banca d’Italia. Grilli aveva conosciuto Gorno Temprini quando il finanziere lavorava alla JP Morgan e ne aveva testato l’abilità. Un altro amico, anzi allievo dei tempi di Yale, è Andrea Beltratti presidente del consiglio di gestione di Intesa. E’ stato eletto dopo un lungo braccio di ferro alla Compagnia San Paolo, azionista dell’istituto di piazza della Scala, con Domenico Siniscalco. E mentre tutti pensavano che il Tesoro tifasse per l’ex ministro, Grilli ha fatto scendere dalla gru il suo deus ex machina, tranquillizzando tutti, a cominciare da Giuseppe Guzzetti che con la fondazione Cariplo è il primo socio di Intesa.

Amicizie e abilità non sono bastate per diventare governatore della Banca d’Italia. Una prima occasione si presenta nel 2006 quando si dimette Antonio Fazio, ma la spunta Draghi. La seconda, cinque anni dopo, è quando questi viene nominato presidente della Banca centrale europea. Sembrava in pole position insieme a Fabrizio Saccomanni, incalzati da Lorenzo Bini Smaghi. Invece, è prevalso Ignazio Visco. Contro Grilli ha pesato il sostegno di Giulio Tremonti, caduto in disgrazia agli occhi di Berlusconi.

Quel rapporto, che Grilli non ha mai rinnegato, gli pesa anche dentro il governo dei tecnici. Il direttore generale del Tesoro viene cooptato, ma solo come vice ministro perché nella prima fase è Monti a tenere l’interim per l’economia. Quando poi entra nella pienezza dei propri poteri, comincia a litigare con i colleghi che gli chiedono di aprire il portafogli: Passera, la Fornero, Antonio Catricalà, sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

Con le gote scavate e l’incarnato pallido oltre misura, ha presentato martedì 9 ottobre 2012 una legge di stabilità, la prima con la propria firma, tutta tagli, tasse e recessione. Ma a prosciugare l’animo e il volto di Vittorio Grilli hanno contribuito ancor di più gli attacchi alla sua reputazione. La7 ha mandato in onda le parole di Giuseppe Orsi captate dalle cimici in un ristorante: il presidente della Finmeccanica, con false consulenze, avrebbe risolto i problemi della ex moglie, Linda Lowenstein. L’appariscente signora, tornata in America in attesa degli alimenti, aggiunge una goffa teoria del complotto contro il Monti bis. Intanto, brucia l’intercettazione di una telefonata con il vecchio amico Maxi (il banchiere Massimo Ponzellini) al quale chiede aiuto per succedere a Mario Draghi in Banca d’Italia.

Prova a rifarsi il volto presentando uno scambio fiscale: un sollievo alle imposte sui contribuenti più poveri in cambio di un aumento dell’Iva. Apriti cielo. Sotto una valanga di attacchi da destra (Renato Brunetta del Pdl) e da sinistra (Pier Paolo Baretta del Pd), Grilli cede. Anche l’Istat critica l’operazione e la Banca d’Italia spiega in Parlamento che a primavera ci sarà bisogno di una manovra aggiuntiva. Ma il cerino passa al nuovo governo.
Non gli riesce nemmeno di lanciare il piano poliennale per vendere il patrimonio pubblico: caserme, palazzi, magazzini, 1.800 aziende locali. Un pacchetto da 15-20 miliardi l’anno, annunciato dalle colonne del Corriere della Sera in piena estate, che deve essere lanciato con la nuova finanziaria. Invece, sparisce nei meandri di via XX Settembre, quartier generale di un ministero che sembra una caserma con tanto di piazza d’armi.

Certo, sarebbe del tutto ingiusto gettare su Grilli la croce per tutto quel che il governo Monti poteva fare e non ha fatto. Anche perché il ministro, costretto a inghiottire tanti bocconi amari, può vantare di aver realizzato il compito che gli spettava: impedire che il deficit sfondasse di nuovo quota tre per cento e traghettare l’Italia fuori dalla tutela forzosa dell’Unione europea. I suoi colleghi hanno ragione a lamentarsi per quella irritante tattica del no preventivo. Ma succede anche al Cancelliere dello Scacchiere e, alla fin fine, a chi gli chiedeva a che punto è la notte, Grilli poteva rispondere solo come la sentinella al profeta Isaia: “Arriva l’alba, ma presto anche la notte, se volete fare altre domande, tornate di nuovo”.