I tormenti del Colle per questa Italia matta e depressa

Romanzo Quirinale tra veti e cinismi dei partiti

Prigioniero della sua biografia e del suo carattere, Giorgio Napolitano soffre e si contorce, si confida disperato con gli amici ma non lascerà mai il Quirinale, divenuto la sua postazione di battaglia contro la follia dell’Italia politica che si avvita in un lugubre stallo. «Lui non è un Facta», dicono i suoi vecchi amici, Napolitano non ha il profilo del presidente del Consiglio che sollevò le braccia al cielo, si dichiarò impotente, e con il suo gran rifiutò aprì la strada alla tragedia nazionale del fascismo. Insomma Napolitano resterà fino alla fine al suo posto, ormai è chiaro, e sono da escludersi persino le cosiddette “dimissioni di cortesia”, quelle che si danno nel momento in cui viene eletto un nuovo presidente: perché Giorgio Napolitano oltre ad avere un carattere rigoroso, al limite della pignoleria, è soprattutto un grande uomo del Novecento, un uomo integralmente politico, legato a un’antica idea del dovere. Così resta lì, un po’ regista indebolito, un po’ attore senza sceneggiatura nel teatro di un paese profondamente depresso e confuso. Come un padrone di casa che ha pudore del proprio disordine domestico, anche il capo dello stato non vuole consegnare al suo successore una Repubblica al marasma.

Enrico Letta, che lo conosce e forse gli vuole persino bene, lo guarda negli occhi: «Da oggi siamo tutti corazzieri». E lui, l’anziano presidente, stanco: «Non voglio affetto, ma responsabilità». Chiuso nel suo studio, Napolitano spesso sbuffa: i gomiti sull’ampia scrivania, il presidente abbandona la testa pesante tra le mani e a volte, a volte, sembra non poterne più di questa pazza Italia che si attorciglia su sé stessa senza costrutto; un’Italia che lui, adesso, dopo molti anni forse comincia a non capire. “La Repubblica è molto cambiata”, dice spesso. Dunque il capo dello stato si confida con gli amici di una vita, con Emanuele Macaluso e con Eugenio Scalfari, che incontra e sente al telefono con una certa frequenza. E dei suoi umori, dei suoi intendimenti, persino delle sue sofferenze, il presidente parla ai dirigenti del Pd che gli sono più vicini e talvolta, forse anche soltanto per ragioni tattiche e in onore alla politica che lui intende come impegno supremo, lo fa anche con quelli del Pdl che pure gli sono così estranei. Ma lo fa con tono minaccioso, ammonendo quasi quegli uomini che dal suo punto di vista contribuiscono, tra veti, interessi personali, cinismo e furbizia, al marasma istituzionale: “Se continuate così mi dimetto”. E mentre pronunciava queste parole, nel corso delle ultime consultazioni al Quirinale, Napolitano ha creduto davvero a quello che stava dicendo, e infatti ha calcato ogni sillaba con la forza della rassegnazione mentre contemporaneamente fissava lo sguardo negli occhi di un Silvio Berlusconi invece perplesso e sempre incuriosito da quell’uomo così strano, quel vecchio comunista così diverso da lui, una figura che il Cavaliere non ha mai davvero compreso. “Io mi dimetto”, ha detto Napolitano, e a più riprese, la sera del 29 marzo scorso, nei suoi colloqui privati al Quirinale. Ma poi niente. La minaccia presidenziale – o lo sfogo? – è restata lì, sospesa, soltanto una minaccia, appunto. Niente dimissioni, malgrado la sofferenza non fosse recitata, malgrado il quadro politico non migliorasse affatto agli occhi del capo dello stato ma al contrario apparisse e appaia sempre più disordinato, folle, incoerente, persino tragicamente pericoloso di fronte al mare in tempesta della crisi economica e finanziaria che agita l’Italia e il mondo.

«I tentativi di Napolitano sono ormai solo una premessa per il lavoro del prossimo presidente della Repubblica», sussurra con rassegnazione Macaluso, che con il presidente ha condiviso un’intera vita all’interno del Partito comunista. Niente governo, dunque, il capo dello stato alla sua ultima regia non ce la fa. E così il vecchio amico rende l’idea di quello che succede al Quirinale, prossimo alla scadenza, si intuisce quale sia il mood nel Palazzo indebolito, laddove il presidente allarga le braccia circondato da un mondo politico che non corrisponde più ai canoni della fisiologia. Ma alla disperazione che a volte lo conquista e lo vince, il presidente oppone un granitico senso della responsabilità e del dovere che tuttavia lo consuma e pesa sui suoi anni. Sulla sua stanchezza e sulla sua alterna disillusione di fronte a un mondo che forse non obbedisce più alle regole di un tempo, in Napolitano prevale sempre la volontà incoercibile di un uomo che è cresciuto negli schemi e nei processi culturali della politica vissuta come attività professionale, in un incrocio saldissimo tra vita privata e vita di partito, militanza e sensibilità civile. Si era appellato ai magistrati di Milano (ma anche a quelli di Napoli), perché un po’, allentassero la presa sul loro grande imputato, su Berlusconi. Chiedeva un tregua momentanea di fronte ai guai italiani, alla crisi e all’impasse istituzionale. Ma niente da fare. Terremoto su terremoto. In quei giorni il braccio destro di Bersani, Maurizio Migliavacca, diceva che il Pd avrebbe potuto «votare sì all’arresto di Berlusconi» proprio nel momento in cui il vecchio presidente invece cercava, a fatica, di obbligare i partiti a restare seduti tutti allo stesso tavolo. Così, come un pendolo, il capo dello stato adesso a tratti vorrebbe mollare tutto e dimenticare, rimuovere la testardaggine di Bersani, la furbizia di Berlusconi, l’anomalia folle di Grillo, l’aggressività di certi giornali nei suoi confronti: forse Napolitano a volte desidera cancellare la faccia, la voce e le ubbie di ciascuno dei tre leader di questa Italia povera e matta uscita dalle elezioni di febbraio. Vorrebbe concedersi al riposo degli affetti familiari. Eppure l’anziano presidente non molla, e si infligge altre dosi di politica e di dolore, prigioniero di sé stesso, del suo carattere e della sua biografia: arrendersi sarebbe contrario alla sua stessa idea dell’etica repubblicana e degli obblighi istituzionali. “Non voglio affetto, ma responsabilità”, dice.

E’ dunque con il nodo in gola che pochi giorni fa è arrivato a gettare le sue dimissioni sul tavolo dell’impasse politica italiana, contro Berlusconi e contro il Pdl, contro la caparbietà del Pd e contro Bersani, che continuano a rimpallarsi la responsabilità dello stallo che non sembra ancora consentire la formazione di una maggioranza e di un governo. Ma sono attimi terribili, perché il presidente soffre ma non cede. E come potrebbe mai dimettersi, come potrebbe mai arrendersi? La sua è appunto un’enorme biografia Novecentesca: la Resistenza, l’attivismo marxista, la scuola del Pci, la fondazione della Repubblica, l’ortodossia e la devianza ideologica, la dissidenza e il dubbio, il crollo dell’ideologia e infine la sua rimozione. Per questo resta immobile l’anziano presidente, sente di dover consegnare al suo successore una Repubblica la più ordinata possibile, soffre all’idea di non riuscirci, non lo nasconde, si confida e ammette debolezza, ma non ha alcuna intenzione di alzare le braccia al cielo come un novello Facta: ha un dovere e una missione, sente l’obbligo politico e morale di portare a termine il suo mandato presidenziale fino all’ultimo giorno possibile, malgrado tutto, malgrado sia uno sforzo immane, malgrado persino l’eta avanzata cominci a farsi sentire con tutto il suo peso.