Il vincitore e lo sconfitto: Bergoglio incontra Scola

Il pellegrinaggio della Diocesi di Milano a Roma, occasione dell’incontro

Si sono incontrati e parlati a lungo mentre sfilavano davanti alle transenne di piazza San Pietro e salutavano, nel frattempo, i tanti fedeli arrivati in piazza San Pietro per il pellegrinaggio della diocesi ambrosiana a Roma.

Jorge Mario Bergoglio e Angelo Scola, il Papa e l’arcivescovo di Milano, che solo poche settimane fa in conclave si sono ritrovati entrambi in lizza per l’elezione del successore di Benedetto XVI, ieri mattina hanno avuto un faccia a faccia pubblico piuttosto rilassato nei modi e nella forma.

Circa 10mila fedeli, sacerdoti, giovani e ragazzi della chiesa di Milano, sono arrivati nella capitale per salutare il Papa. Il pellegrinaggio per la verità era in programma da tempo, cioè prima dell’elezione del nuovo Papa, ma l’occasione è stata colta dal Cardinale Scola per tornare sulla scena dopo un conclave che non lo ha visto, alla fine, protagonista, nonostante l’entusiasmo un po’ eccessivo con cui parte dei media – probabilmente non aiutandolo – aveva lanciato la sua candidatura per il Soglio di Pietro.

Insomma è il caso classico di chi entra papa in conclave ed esce cardinale, eppure ieri l’arcivescovo di Milano sembrava tranquillo e ben convinto del suo ruolo, il colpo era stato assorbito; così ha presentato lungamente al Papa i preti e i tanti accompagnatori dei ragazzi che si affollavano lungo le transenne.

Si tratta di un momento non formale al quale del resto Bergoglio dedica una parte considerevole dell’udienza del mercoledì salutando tutti con calma, stringendo mani, scambiando qualche parola con la gente, i fedeli, i sacerdoti. Scola lo ha seguito a lungo, anche se a molti non è sfuggita la familiarità del saluto del Pontefice con l’altro arcivescovo milanese, cioè Dionigi Tettamanzi, il predecessore di Scola. Tuttavia si tratta di aspetti che non destano troppa meraviglia.

Tettamanzi ha una forte sensibilità sociale, un’immediatezza, che s’incontrano quasi naturalmente con i modi e le parole di Francesco. Sul fronte dei rapporti ecclesiali, invece, il colloquio di ieri mattina fra Bergoglio e l’arcivescovi di Milano, ha avuto una certa importanza. La Conferenza episcopale italiana, infatti, non era uscita bene dal conclave; diversi degli arcivescovi che contano avevano dato la loro preferenza al cardinale Scola con la speranza di riportare il papato in Italia.

Le cose poi sono andate diversamente e in realtà il consenso a Bergoglio è stato forte sin dai primi scrutini per poi crescere progressivamente senza arrestarsi fino alla quinta votazione, quella decisiva, quando sono stati ampiamente superati i due terzi dei voti necessari per l’elezione. 

Se questa però è già storia di ieri, ora si apre un capitolo nuovo. La Chiesa italiana infatti, superato il sogno del papa “nostrano”, si dovrà invece preparare al terzo pontificato di fila “straniero”, con la differenza che questa volta l’elezione sembra aver segnato anche un cambiamento degli equilibri generali all’interno della Chiesa universale.

Così ora i vescovi hanno davanti a loro una sfida non semplice: ripensare un modello di Chiesa in cui l’Italia resta il centro simbolico del cattolicesimo ma non più quello strategico. Nelle settimane scorse, fra l’altro, a ridosso dell’elezione del primo pontefice argentino, si è riunito a Roma il Consiglio episcopale permanente, cioè l’organismo dirigente della Cei. Di norma nell’occasione viene diffusa la relazione del presidente, questa volta non è accaduto.

Così nel cuore di una crisi istituzionale, politica e sociale pesantissima, la voce dei vescovi non si è fatta sentire, tranne qualche intervento sparso di vescovi dei giorni seguenti. Non deve stupire, quindi, se ieri lo stesso Scola, la cui leadership, per ora, emerge come una delle poche che restano in piedi nell’episcopato italiano, abbia deciso di parlare della crisi del Paese attraverso i microfoni della radio vaticana.

Con un linguaggio certo ecclesiale, ha chiesto però che tutte le forze politiche collaborino a portare l’Italia fuori dalla crisi: «chi ha delle responsabilità a tutti i livelli, e cominciamo pure dal livello ecclesiale – evidentemente con le debite distinzioni – e poi dal livello politico, sociale, dell’impresa economica, della finanza, dell’economia e così via, deve trovare la strada di un confronto, di un paragone a tutto campo – tutti nei confronti di tutti – in modo da offrire adesso, nell’immediato, uno sbocco sufficientemente sicuro al Paese».

Ma c’è dell’altro: in prospettiva – ha detto Scola – bisogna lavorare «a un ripensamento delle forme dell’esercizio del potere in questo Paese». Che sembra un modo educato per richiamare l’attenzione sull’urgenza di una riforma che sia elettorale e istituzionale insieme. Non sono idee nuove ma, nell’attuale frangente, questa diventa la parola più chiara pronunciata dalla Chiesa in un passaggio della vita politica italiana fra i più complicati dal dopoguerra.

In ogni caso i circa 230 vescovi italiani, oltre la contingenza politica, in questi giorni si stanno interrogando sul futuro della Chiesa della penisola, su come cambierà anche il loro mondo nei prossimi anni. Di certo, allo stato delle cose, c’è che il cardinale Bagnasco, arcivescovo di Genova, è stato prorogato alla guida della presidenza della Cei per altri cinque anni da Benedetto XVI giusto un anno fa.

Se questo è lo schema di base, è possibile che Bergoglio pensi però a una riforma attesa anche dalla Cei ormai da molti anni. La conferenza episcopale italiana, infatti, è l’unica a non eleggere il suo presidente – che viene invece nominato dal Papa – a differenza di tutte le altre del mondo.

Se Bergoglio darà seguito all’idea di collegialità che sta promuovendo da quando è stato eletto valorizzando il proprio ruolo di vescovo di Roma aprendo a forme di consultazione più frequenti con i vari episcopati, allora potrebbe decidere di modificare pure la modalità con cui viene scelto il capo dei vescovi italiani, lasciando che siano essi stessi ad eleggere il loro presidente. 

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