Un milione di licenziati, salari bloccati, tenore di vita in discesa, produzione sotto zero, economia in recessione lunga. E i sindacati alzano bandiera bianca. La loro stessa ragion d’essere, difendere la paga e il lavoro, viene rimessa in discussione dalla profondità di questa crisi. Eppure essi lasciano le piazze in mano ad altri, a Beppe Grillo, a Silvio Berlusconi a Pierluigi Bersani che sabato mobilita i suoi non per “un governo di cambiamento”, ma “contro la povertà, tema che una volta faceva parte dell’armamentario sindacale. Che cosa sta accadendo?
Punzecchiato lunedì mattina durante la trasmissione Omnibus, su La7, Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, ha detto che sta discutendo con i capi delle altre sigle una mobilitazione. Per ora, andranno a picchettare Montecitorio affinché i partiti si assumano le proprie responsabilità. Poi si vedrà. Intanto, la rabbia sociale ribolle, tra gesti disperati e ribellismo individuale, facile alimento per chiunque voglia pescare nel torbido: una protesta senza sbocco e senza leadership.
C’è una spiegazione in politichese che vien fuori soprattutto da Cisl e Uil. La colpa sarebbe in sostanza della Cgil. Susanna Camusso, dopo una partenza che sembrava promettente, prima si è inchinata ai ricatti della Fiom, poi si è incastrata nella dialettica interna al Partito democratico. Paralizzando così qualsiasi iniziativa nel timore di compromettere l’aspirazione di Bersani alla poltrona di palazzo Chigi. Insomma, sarebbe nata una nuova cinghia di trasmissione, fuori tempo e fuori tema. «Sciocchezze» ribattono nel quartier generale della Cgil in Corso d’Italia. Semmai, sono la Cisl, la Uil e gli altri minori ad essere diventati «governativi per definizione» proprio come Giovanni Agnelli definiva la Fiat.
Così, tra accuse, incomprensioni, rivalità, tra una cinghia di trasmissione partitica e una governativa, i sindacati restano alla finestra, non riescono a incidere sulla crisi economica, sociale, politica e istituzionale. Intanto, cala il consenso nei loro confronti. Secondo alcuni sondaggi, il sindacalista è il personaggio più detestato dopo il banchiere e il politico, tutti membri della stessa “casta”.
Come stiano davvero le cose in casa sindacale, non è chiaro. Le cifre sugli iscritti sono ballerine. Nel confronto internazionale, l’Italia si colloca a metà strada tra la Scandinavia e la Francia. Benché in calo rispetto ai suoi picchi quasi sovietici, la Svezia resta ancor oggi il paese più sindacalizzato: su 4 milioni di occupati, circa 2.800.000 sono iscritti (e più della metà donne). Vanno aggiunti altri 700.000 disoccupati e pensionati organizzati: si arriva a una quota del 70%. L’adesione è alta e stabile in Belgio: attorno al 52% negli ultimi quindici anni. Tutti sono convinti che dopo gli sberloni di Margaret Thatcher, le trade union siano pressoché scomparse dalla Gran Bretagna. Il numero di lavoratori iscritti è senza dubbio crollato, soprattutto in seguito alle scelte politiche dei governi conservatori: da 13 milioni nel 1979 a 7 milioni circa nel 1997. Tuttavia, con un tasso di adesione del 28%, i sindacati britannici sono ancor oggi più forti e rappresentativi di quelli tedeschi, smentendo l’opinione corrente.
In Germania, infatti, la sindacalizzazione è tra le più basse d’Europa (circa il 20% della popolazione attiva), in calo rispetto ai livelli dei primi anni Novanta, quando ancora non si avvertiva la crisi nelle roccheforti tradizionali: manifattura e pubblico impiego. Tuttavia, la DGB, la confederazione unica, conta ancora oltre 6 milioni di lavoratori attivi e 2 milioni circa di pensionati e disoccupati (su 33 milioni di occupati); resta quindi molto influente, anche grazie al potere di partecipare alla gestione di alcune grandi imprese rette dalla cogestione. La Francia, nota per le 35 ore di lavoro settimanali, le fiammate di protesta e la forte ideologizzazione delle sigle sindacali, ha un tasso di adesione minimo: addirittura pari all’8%, meno degli Stati Uniti o della Corea del Sud. La presenza si concentra nel pubblico impiego e nelle grandi imprese, ma la trasformazione sociale del paese, ormai ampiamente terziarizzato, ha cambiato completamente le regole del gioco.
In Italia, che resta la seconda economia manifatturiera d’Europa, il cambiamento è più lento. Anche se l’ultimo decennio ha segnato uno spartiacque. Quanti siano i tesserati italiani non è chiaro. La cifra ufficiale è di 14 milioni e 800mila tra Cgil (5.748.000), Cisl (4.542.000), Uil e Ugl (che però sovrastima i pensionati). La Confsal (Confederazione sindacati autonomi lavoratori) ha aggiunto i suoi (1.818.000) portando la cifra a 16 milioni 671mila. I dati comprendono sia gli attivi sia i pensionati. Dunque, il tasso di sindacalizzazione totale sarebbe pari al 42%. La stessa quota si ottiene prendendo solo gli attivi: infatti, le adesioni ufficiali sono 9 milioni 714mila rispetto a un totale di 22 milioni e 900 mila lavoratori. Secondo il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) invece, la percentuale è solo 33,8. Dunque, i sindacati gonfiano gli iscritti? Siamo come nelle gogoliane anime morte? Qualcosa non torna in termini di trasparenza. Probabilmente, si è cercato di mascherare in qualche modo il trend storico discendente.
Secondo un lavoro di Daniele Checchi, Massimiliano Bratti e Antonio Filippin dell’Università di Milano «la fase di ridimensionamento del sindacato italiano sembra riconducibile al fatto di non essere riuscito a guadagnare consenso tra le frange marginali dei nuovi entrati nel mercato del lavoro, siano essi giovani, laureati o donne». A loro parere, non è una crisi di disaffezione, quanto piuttosto una crisi di rappresentanza. La base di sostegno è diventata più eterogenea. «Le politiche del lavoro hanno fatto crescere le figure marginali. Il sindacato italiano si trova quindi di fronte alla necessità di adeguare la propria politica contrattuale alla modificata composizione della propria potenziale area di rappresentanza». Gli studiosi suggeriscono di adottare una politica contrattuale completamente nuova, «di stampo solidaristico verso il basso (che dovrebbe contemplare il rafforzamento di reti di salvataggio per gli eventuali disoccupati) e di carattere meritocratico-incentivante verso l’alto».
Sarebbe una linea senz’altro più adeguata alla strutturale del mercato del lavoro, e tuttavia anch’essa può solo a rallentare l’emorragia. La necessità di far compiere all’Italia un salto di produttività, dopo vent’anni di stasi se non di declino (con l’eccezione di alcuni segmenti molto competitivi); e una crescente decomposizione dei luoghi fisici del lavoro (si pensi alla nuova rivoluzione tecnologica innescata dalle stampati 3d), richiedono non solo politiche contrattuali, ma forme di rappresentanza completamente diverse. Un sindacato che si chiude nelle antiche fortezze anche quando queste crollano sotto i suoi piedi (basta guardare a quel che accade nell’industria automobilistica) non ha futuro.
In questa mancanza di prospettiva risiede anche la scarsa capacità di incidere nella crisi presente. Vissuto come una corporazione, una lobby talvolta contrapposta talvolta connivente con la lobby industriale e con quella bancaria, il sindacato così come l’abbiamo conosciuto scivola via insieme agli ultimi residui della politica novecentesca. È un processo inevitabile. Ma se lascia il posto a una incrostazione di interessi acquisiti, alla difesa di privilegi ormai obsoleti, alla ottusa tutela dei garantiti, il sindacato diventa un impaccio, una delle istituzioni che ostacolano la grande metamorfosi della società occidentale. Il problema è aperto in tutto il mondo industrializzato, in Europa in modo più acuto, in Italia in forma ormai drammatica.