La mostra di Modigliani a Milano: l’arte dei maledetti

A Palazzo Reale fino all’8 settembre

Per una volta una mostra che ci fa scoprire qualcosa di nuovo. A Palazzo Reale di Milano, con Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti (in mostra fino all’8 settembre 2013) scopriamo un personaggio quasi sconosciuto, Jonas Netter, che nei primi decenni del Novecento scopre e aiuta artisti che nessuno voleva e la sua collezione di un centinaio di quadri che non si vedevano da più di settant’anni. E insieme scopriamo una Parigi vera, molto diversa da quella mondana, patinata, descritta in tanti romanzi e film (l’ultimo che riassume quel tono brillante e superficiale è Midnight in Paris di Woody Allen.

Di Netter si sa poco: ebreo alsaziano trapiantato a Parigi, fa il rappresentate di diverse ditte. Appassionato d’arte, adora gli impressionisti, ma non può permetterseli, li può solo ammirare nei musei e nelle gallerie, così comincia a girare per mercanti e studi d’artisti e compra quel che gli piace, senza dar retta agli amici che lo prendono in giro per gli orrori che raccatta. La svolta avviene nel 1915, quando va a rinnovare i suoi documenti dal prefetto Léon Zamaron. Alle pareti del suo ufficio – non osa crederci – stanno appesi dei quadri stranissimi, con case e strade sghembe, semi-diroccate, dipinti con un impasto di tutte le gamme del bianco, magnifico; sono di un giovanissimo e disprezzatissimo ragazzo che si chiama Maurice Utrillo. Il prefetto, anche lui un amateur, è felice perché tutti si giravano dall’altra parte davanti a quei paesaggi, così gli combina un appuntamento con il mercante che glieli ha venduti. Questi è Léopold Zborowski, anche lui ebreo, ha lasciato la Polonia per diventare poeta, intanto campa vendendo i quadri dei suoi compagni di sbornie. È un geniaccio esuberante, trasgressivo, un po’ imbroglione, con un occhio e una sensibilità straordinarie. Un carattere agli antipodi di quello di Netter che è schivo, affidabile, generoso; il sodalizio tra i due funziona forse perché sono complementari. Zborowski gli presenta i ‘suoi’ artisti. Netter è entusiasta e compra a man bassa, passa addirittura un mensile a quelli in cui crede di più.

Il primo dei suoi protetti è Amedeo Modigliani (Livorno 1884 – Parigi 1920; foto a fianco), cedutogli volentieri dal gallerista Paul Alexandre, che non ne poteva più dei suoi eccessi. Il successo e la leggenda intorno a lui nasceranno solo dopo la morte; intanto nessuno lo vuole, piace solo agli altri pittori e a Netter. Per una volta la storia ha avuto ragione, Modì è davvero il più bravo di tutti gli altri ‘maledetti’ in mostra. Scopriamo dalle sue lettere che scrive anche bene, è spiritoso e raffinato anche quando batte cassa: ‘Questo è il problema: ovvero that is the question (vedi Amleto), cioè: to be or not to be. Sono io il peccatore – o il coglione, beninteso. Riconosco la mia colpa ( se di colpa si tratta) e il mio debito ( se di debito si tratterà), ma ora il problema è questo: che sono, se non proprio nei guai, in gravi difficoltà…Se Lei mi libera…’. Scrive da Nizza, dove era andato a curarsi su consiglio di Sborowski e a spese naturalmente di Netter. Lo accompagnava la giovane moglie, Jeanne Hébuterne. Tra gli altri quadri in mostra, vediamo un ritratto di lei straordinario. La composizione è di un rigore classico. Jeanne è seduta al centro, vista di profilo, bellissima. L’onda dei capelli rossi all’henné raccolti in uno chignon alto sulla nuca continua nella curva sinuosa dell’inconfondibile collo da cigno; il busto esile, le mani incrociate sul grembo appena rigonfio per la gravidanza creano l’icona di una nuova Madonna, senza retorica, senza sentimentalismo. Il rigore è scandito dallo sfondo: sulla sinistra il rettangolo di una porta grigia, sulla destra una parete beige incornicia il dorso di una intelaiatura marrone rossastro che rimanda alle sfumature della gonna e dei capelli.

Un altro documento interessante ci svela il mistero dello scandalo che suscitò la prima mostra di Modigliani con i suoi famosi Nudi, che ai nostri occhi sono stilizzati, raffinati, poco naturalistici, assolutamente non volgari. Allora perché intervenne addirittura la polizia minacciando di sequestrarli? Leggiamo dal rapporto di un agente che erano osceni perché avevano ‘il pelo’. Un’altra notizia inedita è che Netter venderà dieci dei quadri di Modigliani in Argentina, non per specularci, ma farli conoscere anche dall’altra parte del mondo, perché lui credeva nella nuova arte e la voleva divulgare. A sua volta Modigliani aiuta altri pittori presentandoli a Zborowski. Sarà un caso o solidarietà ‘razziale’, ma sono quasi tutti ebrei e vengono dalle più desolate lande dell’Est europeo.

Amedeo Modigliani, Ritratto di Jeanne Hébuterne, 1918, Olio su tela, cm 100 x 65

Amedo Modigliani, Ritratto di Soutine, 1916, Olio su tela, cm 100 x 65

Il più noto e il più bravo è Chaïm Soutine (Smiloviči 1894 – Parigi 1943), che ritrae appena lo conosce. Un’infanzia turbolenta e difficile, genitori che lo picchiano per farlo rigare dritto. Un giorno viene sorpreso a disegnare il ritratto del rabbino del suo villaggio in Lituania e viene massacrato di botte tanto da finire all’ospedale: per gli ebrei osservanti è vietato riprodurre immagini. Così, rabbioso, terrorizzato, fugge.

A Parigi ci arriva a piedi, infestato dai parassiti, con un odore di selvaggio che conserverà per tutta la vita, al punto che Chagall diceva facesse davvero schifo. La sua pittura è violenta, convulsa, con colori e linee stridenti, personaggi che fanno paura, paesaggi da incubo; nessuno lo vuole, salvo il generoso Netter. Zborowski non crede nel suo talento e gli paga in ritardo il mensile. La fortuna di Soutine inizia nel 1922 con l’arrivo a Parigi del milionario collezionista americano Albert Barnes, che si appassiona alla sua pittura e lo fa diventare ricchissimo: da miserabile pittore si trasforma in un raffinato dandy. A distanza di anni, a chi gli parlava di Modigliani, morto da tempo e ormai famosissimo, Soutine rispondeva «Non mi parlate di quell’italiano che mi ha quasi fatto diventare un alcolizzato». Durante l’occupazione tedesca riesce a rifugiarsi nella campagna francese, ma è collerico, insopportabile anche coi suoi ospiti. Fa fuori tutto quel che guadagna. Dipinge carcasse di animali putridi che poi accoltella, distrugge i suoi quadri. Intanto a New York e a Philadelphia i suoi quadri valgono milioni.

Chaïm Soutine, La pazza, 1919 circa, Olio su tela, cm 87 x 65

Chiam Soutine, Giovane donna, Olio su tela, cm 73 x 46

Altro profugo ebreo, Isaac Antcher (Peresecina 1899 – Parigi 1992), arriva a Parigi nel 1920 dalla Russia per studiare pittura. Lavora come manovale, facchino, minatore per sopravvivere e pagarsi gli studi di pittura, ma non ce la fa. Decide allora di partire per la Palestina, dove per un po’ diventa pioniere in un kibbutz, ma presto riprende la sua vita inquieta. Si iscrive all’Accademia di Belle Arti Bezalel di Gerusalemme, poi molla tutto per tornare a Parigi nel 1924.

Dipinge paesaggi ispirati alla scuola di Barbizon, a Corot soprattutto, «che più di ogni altro conobbe il mistero dell’anima nascosta dentro un albero». Il suo misticismo tormentato piace a Netter che lo aiuta, ma la crisi del ’29 lo riduce di nuovo in miseria. Antcher scampa alle persecuzioni naziste rifugiandosi in Svizzera, poi torna a Parigi dove riprende a dipingere le sue nature misticheggianti. Non smette neanche quando nel ’68 è colpito da un’emiplegia che lo lascia handicappato alla mano destra. Invece di avvilirsi, è sempre più esaltato: dichiara che è una prova divina, come quella di Giobbe, ed esprime nei suoi paesaggi il suo furore religioso.

Isaac Antcher, Bosco con figura, 1929, Olio su tela, cm 60 x 73, firmato in basso a sinistra

Non tutti i pittori ebrei collezionati da Netter sono dei disperati, anzi alcuni riescono a guadagnarsi fama, successo e una rispettabile vita borghese come Moïse Kisling (Cracovia 1891 – Sanary-sur-Mer 1953). Arriva a Parigi nel 1910, nemmeno ventenne. Va a vivere nella stessa casa di Zborowski e pare che sia stato lui a presentare Modigliani al mercante. Generoso, pieno di energia e di un’allegria contagiosa, Kisling fa la bella vita, ma tutte le mattine alle otto, quando arriva la sua modella, è pronto a mettersi al lavoro.

Florent Fels lo descrive com’era a quel tempo: «Scontroso per autodifesa ma generoso per natura, così bello da far girare la testa alle donne al suo passaggio, ci incantava col suo ottimismo aggressivo, con i suoi ingressi a effetto nei locali eleganti, col suo côté di ‘uomo primitivo’, grazie al quale anche le donne più raffinate da lui ritratte accettavano con indulgenza le libertà che egli si prendeva». Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola nella legione straniera. Riformato per una grave ferita, ottiene la cittadinanza francese e comincia ad accumulare successi. Si sposa, ha due figli, scappa in America con l’avvento nel Nazismo, poi torna in Francia, muore nel 1953 a Sanary-sur-Mer. Nei suoi Souvenirs, Kiki, la famosa modella, regina di Montparnasse, che ha posato spesso per lui, lo ricorda «con le sue camicie alla Tom Mix e sua moglie, che ha la risata più allegra di tutta Parigi», insieme a Foujita, Derain, Desnos, Fernande Barrey, Man Ray, Pascin. «È stato il talento di tutti questi amici a fare Montparnasse». Il ritratto che ha dipinto di Netter è una delle rare testimonianze del suo aspetto. Che il collezionista abbia vinto la sua leggendaria riservatezza per Kisling testimonia della stima e dell’amicizia che li legava.

Moïse Kisiling, Ritratto di Jonas Netter, Olio su tela, cm 116 x 81

Molti dei pittori in mostra, sconosciuti o quasi, sono interessanti, ma non particolarmente bravi, non particolarmente originali. Una scoperta è senz’altro Suzanne Valadon (Bessines 1865 – Parigi 1938), più famosa per l’infinita schiera dei suoi amanti e per essere la madre di Utrillo che per il suo talento. Arriva a Montparnasse a quindici anni per far la lavandaia. L’onesto, faticoso lavoro dura poco. Suzanne è irresistibile, così minuta e voluttuosa, tutti i pittori la vogliono come modella. Da Puvis de Chavannes a Renoir se la contendono e se ne innamorano.

È Henry Toulouse-Lautrec a incoraggiarla a dipingere dopo aver scoperto i suoi disegni e il nostro Netter il primo a collezionare i suoi quadri. La Valadon riesce a far diventare suoi, a rielaborarli in uno stile originale i grandi dell’impressionismo, da Cézanne a Degas, a Toulouse naturalmente. Definisce le forme con una forte linea nera, che riempie con una pennellata densa, carica di colori forti che richiama l’Espressionismo, creando nelle sue composizioni un magico equilibrio sempre sul punto di spezzarsi.

Susanne Valadon, Vaso di fiori, 1927, Olio su tela, cm 73 x 52

Susanne Valadon, Ritratto di Maria Lani, 1928

Come si diceva all’inizio, il primo ‘maledetto’ che vede Netter in quell’incredibile incontro col prefetto collezionista è Maurice Utrillo (Parigi 1883 – Dax 1955), figlio appunto della Valadon. Lei lo adora, ma ha una vita troppo sregolata ed è costretta ad affidarlo alla nonna che, terrorizzata dalle sue crisi epilettiche, cerca di calmarlo con il vino, rendendolo alcolizzato ancora in fasce, o almeno è questa la leggenda che girava. Suzanne disperata lo porta da tutti i medici possibili, finché prova a curarlo con la “terapia della pittura”. Queste opere giovanili, il suo ‘ periodo bianco’, sono tra le raffigurazioni più toccanti di Montmartre e dei quartieri vicini, Montmagny e Pierrefitte, e sono proprio quelle comprate da Netter ed esposte in mostra, il che dimostra come il collezionista non comprasse qualsiasi cosa gli venisse offerta, ma avesse un suo gusto preciso.

Comunque, la pittura non salva Utrillo: nella fase più acuta del suo alcolismo arriva a bere l’acqua di colonia e la trementina usata per stemperare i colori. Dipinge forsennatamente, ma diventa banale, bozzettistico, da cartolina. Forse per questo è così popolare. Nonostante i soldi e la fama, lui resta un bambino viziato, vizioso, disperato. È disprezzato perfino dalle prostitute del quartiere che lo chiamano “Le fou de la Boutte” e dai bambini che gli affibbiano il nomignolo di Litrillo. A quarant’anni si rinchiude in casa a giocare con un trenino elettrico regalatogli dalla madre. Tra una crisi di delirium tremens e il centesimo quadro di Montmartre, muore a 72 anni.

Maurice Utrillo, Rue Norvins, 1909, Olio su tela, cm 50 x 73