Sarà la prima estate senza festival musicali?

L’Italia non è (più) rock

L’annuncio, risalente ad alcuni giorni fa, della cancellazione dell’Heineken Jamming Festival e di Rock In IndRho, due tra i più importanti eventi musicali estivi della penisola, ha colto di sorpresa, ma solo fino ad un certo punto, appassionati e addetti ai lavori. Il primo dei due appuntamenti, nato nel 1998 e svoltosi in una prima fase presso l’autodromo Dino Ferrari di Imola (trasferitosi nel 2007 al Parco San Giuliano di Mestre, edizione funestata da una tromba d’aria che aveva causato il ferimento di trenta persone, era stato spostato lo scorso anno alla Fiera di Rho), era già saltato in un’altra occasione, nel 2009, ma in quel caso erano stati prolungati ritardi logistici a originare il forfait. Questa volta le motivazioni sembrerebbero legate alla scelta della location, e Marco Boraso, responsabile marketing di Live Nation, società organizzatrice dell’evento, fa riferimento, parlando in esclusiva con Rockol, alla necessità di trovare uno spazio più «bucolico» dove organizzare il tutto. Rock in IndRho ha una storia più recente ma comunque rilevante. Nato nel 2005 con il nome di Rock In Indro e programmato inizialmente presso l’Idroscalo, dopo qualche passo falso e le trentamila presenze del 2011 lo scorso anno sembrava aver trovato anch’esso una collocazione funzionale presso gli spazi della Fiera di Rho. E invece Alex Fabbro di Hub Music Factory, agenzia organizzatrice, ha dichiarato: «Abbiamo cercato di dare al festival un format diverso da quello degli anni passati ma, purtroppo, non siamo riusciti ad assemblare una line-up all’altezza».

In entrambi i casi si parlerebbe di un arrivederci al 2014 ma in molti si chiedono se non si tratti del punto di non ritorno di una crisi legata ai grandi eventi musicali che perdura da anni. Da più parti si continua a sostenere che in Italia non si sia mai sviluppata davvero quel genere di cultura che all’estero permette al festival rock di essere un evento condiviso e vissuto come esperienza a sé stante, non sequenza di eventi separati. Qualcosa, insomma, da vivere in tutti i suoi aspetti, a prescindere dal cartellone. Quel che è certo è che il nostro paese ha sempre avuto un rapporto problematico con le manifestazioni musicali, fin dai turbolenti anni Settanta, quando gli «autoriduzionisti», al grido di «la musica non si paga», avevano a lungo tenuto lontani dai palchi dei palasport i musicisti stranieri, terrorizzati dalla prospettiva di ricevere una molotov in piena fronte. Eppure in quegli stessi anni, pur nell’ambito circoscritto dei movimenti della sinistra giovanile, non erano mancate significative esperienze di condivisione culturale, come il Festival di Re Nudo al Parco Lambro. Al di fuori di contesti comunitari ben precisi è tuttavia evidente come la storia dei festival rock, nel nostro paese, sia sostanzialmente una storia di occasioni mancate, di tradizioni che non attecchiscono e di perseveranza poco o malamente premiata. La presente crisi economica, ovviamente, non ha affatto alleggerito il problema.

Damir Ivic, giornalista, organizzatore di concerti in seno all’agenzia DNA e collaboratore della Red Bull Academy, sottolinea come nel delineare la problematicità della situazione intervengano molteplici fattori: «La crisi economica c’entra senz’altro, e va detto che non ha colpito solo l’Italia. Ad esempio i Spagna molti festival sono saltati, anche se hanno resistito grandi appuntamenti come il Primavera Sound e il Sonar di Barcellona. D’altro canto qui c’è un’assenza di cultura festivaliera presso il potenziale pubblico: magari il fan sborsa trenta euro per andare a vedere un artista ma non ne sborsa cinquanta per andare a vedere qualcuno che apprezza in un contesto in cui sono presenti anche altri nomi, e questo è un comportamento molto italiano. C’è poi un terzo fattore: molti organizzatori di festival dal taglio rock organizzano la line up come se fosse una raccolta di figurine, allo scopo di richiamare quanta più gente possibile, quando invece sono gli eventi profilati e focalizzati a funzionare e a crescere in questo momento. È il caso del Club To Club di Torino, dedicato alla musica elettronica, che sta funzionando vuoi perché l’elettronica da noi è ancora un territorio relativamente nuovo in un’ottica festivaliera, vuoi perché dietro ci sono nuove generazioni di operatori e organizzatori».

Le rassegne dedicate ad una particolare scena o a un’idea forte, in effetti, sembrano funzionare: è il caso del Mi Ami, organizzato ancora a Milano, dedicato alla scena indipendente nostrana e promosso dal sito italiano di riferimento, Rockit. Se riducendo la scala dell’evento i problemi si relativizzano, gli ostacoli non mancano comunque mai. Uno, in particolare, ancora secondo Ivic: «Il fattore burocratico, l’eccesso di passaggi da compiere per potersi mettere in regola. All’estero è molto più facile ottenere i permessi, e questo incide parecchio. Ad esempio, in questo momento a Milano c’è la settimana del Design ed è facile riuscire a proporre eventi musicali fino a tarda ora. Nelle restanti settimane dell’anno è molto più complicato».

In questi anni c’è comunque chi ha cercato di organizzare manifestazioni rock con un occhio all’Europa e al mondo, cercando di far passare l’idea di un evento in simbiosi con la città che lo ospita, in un’ottica di strategia turistica che altrove e la norma e qui fa fatica ad attecchire. Parliamo del torinese Traffic Festival, evento gratuito che nel corso delle edizioni ha portato nel capoluogo sabaudo nomi di richiamo internazionale quali Iggy Pop, Sex Pistols, Lou Reed e Daft Punk. Dopo vari spostamenti di location, e un’edizione 2012 che puntava al rilancio, in questo momento non ci sono notizie ufficiali sull’edizione 2013. Se non siamo riusciti a strappare informazioni certe sull’immediato futuro della manifestazione, Alberto Campo, giornalista nonché uno dei quattro direttori artistici della manifestazione (con lui, tra gli altri, anche Max Casacci dei Subsonica), ci ha dato il suo parere sulla situazione generale: «Direi che in Italia mancano cultura e tradizione, nel senso che il festival è anzitutto esperienza condivisa più che semplice aggregato di band e musicisti. Da noi, qualcosa di lontanamente simile è stato Arezzo Wave nel suo periodo migliore, o magari Umbria Jazz nei primi anni, senza andare fino ai raduni di Parco Lambro degli anni Settanta, che avevano trazione politica prima che culturale. In Italia, sovente, i festival sono semplici accozzaglie di artisti famosi e non, se non semplici rassegne di concerti, uno per sera.

È una logica da ipermercato, insomma. Ragion per cui, in tempi di crisi e tagli dei bilanci individuali, si compra meno.» L’esperienza Traffic ha comunque rappresentato un tentativo ben preciso: «Volevamo appunto mettere in pratica la nozione di festival a cui alludevo. E finché Traffic è rimasto nella sua collocazione originaria, al Parco della Pellerina, e poteva ambire a scritturare artisti di rilievo, ci siamo avvicinati all’obiettivo. Essendo un festival gratuito, e non avendo noi sviluppato un’adeguata capacità di attrazione di sponsor privati, il nostro vero limite, ha finito per dipendere in misura eccessiva dai finanziamenti pubblici. E in un momento drammatico per i bilanci degli enti locali, ovviamente non poteva non risentirne negativamente». Se l’esperienza dei festival spagnoli, pur relativamente recente, continua a funzionare, non è possibile puntare a quel modello? «Dalla loro», prosegue Campo, «gli spagnoli hanno prima di tutto il posizionamento internazionale: tanto il Sonar quanto il Primavera Sound, per non dire di Benicassim, vero centro vacanza per inglesi, hanno avuto fin dall’inizio una vocazione di quel genere, proiettandosi fuori dai confini nazionali. Per dire di Traffic, fino al 2007 eravamo riusciti a mettere il festival sulle mappe continentali e una percentuale significativa di pubblico era straniero: perseguivamo quell’obiettivo. Perché là sta la vera differenza. Quanto al futuro, il periodo è talmente buio che si fatica a vedere orizzonte. Per rendere possibili esperienze analoghe in Italia servirebbe una convergenza virtuosa di scelte lungimiranti di politica culturale, imprenditoria illuminata e competenze specialistiche ad alto livello. Al momento attuale, fantascienza.»

Eppure qualcuno ancora ci crede. È il caso di Ypsigrock, festival siciliano che si tiene ogni anno, dal 1997, a Castelbuono, a pochi chilometri di distanza da Palermo. Un palco sul quale, nel corso degli anni, sono apparsi nomi che ritroviamo nel programma dei grandi festival europei, come gli scozzesi Primal Scream. Abbiamo chiesto a Gianfranco Raimondo, uno degli organizzatori, il suo punto di vista sul futuro dei festival rock nostrani: «I grandi festival hanno radici principalmente nelle tradizioni culturali di una nazione, e in ogni caso, prima di diventare realmente grandi, in genere affrontano un percorso di crescita ben studiato, con precisi piani di investimento. In questo non c’entrano nulla né le istituzioni né gli sponsor, che certamente aiutano ma, come si è visto nel caso dell’Heineken Jamming Festival, non sono risolutivi. Gli italiani non nascono animali da festival e vanno educati con modelli che qui sono ancora assenti». Ypsigrock rappresenta un fenomeno di controtendenza? «Noi lo consideriamo un perfetto modello educazionale, ha tutti gli elementi di un festival e soprattutto ha un pubblico che pensa da festival. Questo risultato ovviamente non si è raggiunto in un anno: è passato attraverso scelte azzardate e senz’altro complicate prese fin da subito, ad esempio quella di non fare mai suonare lo stesso artista due volte, in questo modo il nostro pubblico ha iniziato ad assaporare il fascino della scoperta abbandonando il pregiudizio del «non conosco e dunque non mi piace». Tuttavia, dalla maggior parte dei colossi europei ci separa ancora un abisso, soprattutto per ragioni di investimenti economici, cosa che in termini di concorrenza ci rende la vita impossibile a causa dei costi di produzione artistica che il mercato sta via via chiedendo. Fortunatamente si fa un bel parlare di noi nell’ambiente dei festival e molti artisti internazionali sono interessati a vivere la nostra esperienza» E le istituzioni? Qualche tempo fa Ypsigrock si è lamentato di non essere entrato a far parte dei festival siciliani meritevoli di finanziamento stilato dall’allora neoassessore Franco Battiato: «Battiato era da poco insediato e quelle scelte erano state prese da una commissione nominata dal suo precedessore, dunque ai nuovi vertici l’unica accusa che si può muovere è quella di mancato controllo. Comunque va detto la Sicilia istituzionale boccia regolarmente il nostro festival, preferisce puntare ad altro. Un festival deve avere come prima risorsa il pubblico disposto a pagare, e un abbonamento festivaliero, all’estero, costa non meno di 200 euro. Qui in Sicilia si finanziano con centinaia di migliaia di euro appuntamenti che nulla hanno a che fare con la musica ma al contempo ti permettono di vedere gratis Carmen Consoli, Max Gazzè e Subsonica. Ci chiediamo che senso abbia sprecare il denaro di tutti per finanziare qualcosa che il pubblico sarebbe – e deve essere – disposto a pagare.»

L’estate rock del 2013 si preannuncia dunque più povera (perlomeno per quanto concerne gli appuntamenti più generalisti e trasversali) ma pare non essersi ancora del tutto arresa all’incertezza, alla burocrazia e alla lunghezza della strada che rimane da percorrere. Con un paio di punti su cui chi intende organizzare eventi di quel tipo dovrà continuare a lavorare: l’ancora problematico rapporto con le istituzioni e la creazione o, meglio, la «coltivazione» di un pubblico festivaliero vero e proprio. 

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