Portineria MilanoSenza idee e soldi: Bossi fa “Gandhi” e appoggia Maroni

Chi si aspettava dal Senatùr la rottura con Bobo rimane deluso. Espulsioni in vista

Per capire la delusione dei cosiddetti bossiani a Pontida bisogna fare un passo indietro di dieci giorni. Quando Umberto Bossi, il padre fondatore della Lega Nord, il presidente onorario che ha ordinato ai padani di stringersi la mano sul pratone, chiese al tesoriere Stefano Stefani un appuntamento per parlare dei soldi del movimento. Secondo i ben informati durante quell’incontro il Senatùr – spinto soprattutto dagli esclusi alle ultime elezioni –  avrebbe dovuto domandare al fidato «orafo vicentino» se c’erano le condizioni per andarsene o fondare un nuovo partito/associazione. Fissato l’appuntamento in via Bellerio intorno alle 1430, Bossi poi non si è mai presentato: alle 17 era ancora a Gemonio.

Basta questo episodio per descrivere tutte le difficoltà dei “cosiddetti” bossiani di riprendersi la Lega o di farne persino un’altra. Problematiche che si risolvono in tre questioni. La prima riguarda i pochi soldi «in cassa» dopo la campagna elettorale e i prossimi tagli ai rimborsi ai partiti. I diamanti di Belsito sono stati ridati ai militanti e la cinghia è sempre più stretta: spaccare non avrebbe altro risultato che impoverire tutti quanti o creare battaglie legali lunghissime. La seconda è la mancaza di una nuova idea politica, almeno più convincente della Macroregione del Nord che in questi mesi viene cavalcata dal segretario Roberto Maroni. La terza, è che tanti veneti e lombardi a favore «della scissione» alla fine non si sono presentati.  

Al di là quindi dei fischi e delle contestazioni al sindaco di Verona Flavio Tosi e al vicecapogruppo Gianluca Pini (che bollerà i fischiatori come “quattro stronzi” ndr) –  magra consolazione per l’ex deputata Paola Goisis o il neo «rivoluzionario» Santino Bozza – c’è un’evidente frustrazione tra i ranghi degli oppositori di Bobo. In tanti, che in questi giorni avevano soffiato contro la nuova dirigenza minacciando fuoco e fiamme, aspettavano dal Capo un segno di discontinuità, anche (e soprattutto) politica. Attendevano quel segnale di rottura, o “di sfanculamento” dei vari “Tosi, Maroni e Salvini”. Ma non è arrivata.

Certo, il Senatùr ha definito “leccaculo” chi dice che va tutto bene. Ha chiesto nuovi congressi. Ha accarezzato più volte i militanti e la base. Ma alla fine lo ha ribadito “non ho fatto la Lega per romperla”. E ha proposto che i dirigenti vengano votati ogni anno. Molte proposte, poca sostanza, simili a “tamponi” per sedare il dissenso e ribadire che lui in Lega rimarrà fino alla fine. E la scena finale, dopo il suo discorso, con Bossi che stringe la mano a Maroni, con i due che borbottano, è forse il «simbolo della tregua». Il significato è evidente: per fare un partito non bastano un leader carismatico, “quattro fischietti”, due fogli con la foto di Bobo con il naso di Pinocchio o il militante che insulta Isabella Votino, la portavoce del presidente di regione Lombardia.

Pure il gruppo di militanti ed esponenti locali veneti che hanno contestato Tosi non passeranno alla storia. Pensare che proprio Bozza prima dell’intervento del Senatùr lo diceva chiaramente: «Facciamo un nuovo partito». Ma Bossi ha sepolto (al momento) ogni speranza. E pure lo striscione ‘Veneto congresso subito’ rimane una provocazione a metà. Il «Vecchio» chiede che si faccia questo benedetto «congresso» perché ci sono troppi commissariamenti, ma poi il governatore Luca Zaia, dal palco, chiede che quello striscione venga accantonato. Sarà Zaia, poi, a ribattezzare Bossi «Gandhi», simbolo della pace leghista.

In sostanza, a lato delle poche truppe presenti per sostenere Bossi nella battaglia, quello che più è mancata è stata soprattutto una nuova idea politica. Il Senatùr ha detto di non essere d’accordo con Maroni sul fatto di lasciare Roma e di non interessarsene, ma è una voce che resta lì. E Gianni Fava, maroniano di ferro, bolla gli oppositori alla linea Maroni con un tweet di questo tipo: «Oggi a Pontida si è materializzata la nuova casistica dei cosiddetti rivoluzionari da tastiera. Capitani coraggiosi che da mesi promettono sfracelli su fb e che il giorno in cui avrebbero potuto dimostrare di essere uomini hanno lasciato soli un manipolo di pirla e si sono guardati bene dall’essere presenti. Nuovi eroi da scrivania che spero tolgano il disturbo presto». Riferimento nemmeno troppo velato all’ex capogruppo Marco Reguzzoni, assente.

Stefania Piazzo, ex direttrice della Padania, descrive bene la situazione nel suo editoriale “La Montagna ha partorito il topolino” su Piazzolanotizia.it: «Maroni ha vinto ancora. Bossi non ha alzato la mano della secessione interna, ha denunciato “il momento di crisi di democrazia interna”, sculaccia la dirigenza. La Lega a trazione calabrolucana ha avuto la meglio. Se Bossi aveva una possibilità per rompere, per rimettere in discussione la Lega, quella occasione era a Pontida, e l’ha lasciata andare. Lì si erano radunate le sue truppe, le poche ancora rimaste fedeli. “Il capo va ma non si sa cosa fa”, dicevano i più vicini al Senatur. Niente, la risposta.».

Aggiunge Piazzo: «Più si andrà avanti, più le sue truppe saranno disperse o lasciate ancora cadere sul campo. E meno gliene rimarranno. Il che, per un carismatico come lui, è l’ambiente meno ideale per condurre una battaglia politica. Anzi, per non fargliela condurre affatto.  A chi parlerà infatti Bossi la prossima volta? E quando avrà l’opportunità di farlo? Tra un anno, all’altra Pontida? In autunno, a Venezia?  Intanto le espulsioni, che già non gli hanno fatto controllare, non si placheranno. Chi ha vinto, governa il partito». E adesso? Le espulsioni sono tutte ancora sulla carta, starà a Bobo e ai maroniani decidere le prossime mosse.

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