È sempre più difficile essere cittadini italiani. Non solo per la crisi e la mancanza di liquidità che attanagliano la penisola. Ma anche perché i legittimi poteri dello Stato sono arrivati a dare messaggi talmente discordi che, sulle menti meno lucide, rischiano di riflettersi come contraddittori. Quando si parla di società civile si tende a omettere il fatto che politica e magistratura non dovrebbero assolutamente esserne estranee. A entrambe come a qualunque cittadino dovrebbe essere chiesto non solo il rispetto del senso dello Stato, ma in primis, di avere senso dello Stato. Non siamo qui ad affrontare la questione “politica”. Ma l’altro potere.
Ecco che negli ultimi anni la magistratura nel suo complesso non si è sottratta dal produrre messaggi discordanti. Insegnamenti che non aiutano la formazione psichica del cittadino. È vero che pubblici ministeri e giudici devono solo valutare reati e perseguire i cattivi, ma non dispiacerebbe se essi – pm e giudici nel loro complesso – contribuissero maggiormente a innalzare il senso civico degli italiani. Anche al fine di prevenire i reati stessi. Vorremmo prendere due esempi. Opposti. Uno positivo e uno negativo. Ma che ugualmente rischiano di deresponsabilizzare il cittadino. Uno avviene a Milano nel 2012 e l’altro tra Catanzaro, Salerno e Potenza, la cosiddetta “guerra tra procure”.
L’anno scorso il giudice di Milano Oscar Magi condanna a una pena pecuniaria quattro banche – Deutsche Bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank – per la presunta truffa da 100 milioni sui derivati stipulati dal comune di Milano nel 2005. Per il procuratore aggiunto, Alfredo Robledo, la sentenza «è storica» e «riconosce il dovere di trasparenza da parte delle banche». Sull’importanza della sentenza e sulle capacità di Robledo nulla da dire. Per fortuna un magistrato è riuscito nell’intento di perseguire reati così subdoli e delicati. Dal punto di vista sociale, la sentenza è però basata sul concetto di bianco e nero. Da un lato le banche opache e dall’altro i “tecnici” dei Comuni che sono cascati nei tranelli.
Le coscienze dei cittadini, condannando gli istituti, assolvono i funzionari. Che, invece, per il fatto stesso di non aver evitato il danno, hanno dimostrato lacune. In un Paese evoluto, molto più dell’Italia, non si sarebbe dovuti arrivare al bubbone. I funzionari avrebbero dovuto subire un processo dal punto di vista politico per il fatto di aver approcciato strumenti così complessi senza esserne in grado. I cittadini avrebbero dovuto chiedere conto di eventuali danni erariali o di probabili rischi in quella direzione, prima che intervenisse la magistratura. Così si contribuisce a formare la classe dirigente. Una sentenza ex-post (non fraintendiamoci, per fortuna che c’è stata) non educa il cittadino ad avere responsabilità oggettiva sui propri funzionari pubblici.
In questo caso la procura di Milano è dovuta intervenire per tappare un buco, come la mamma che è costretta a far pulizia nella stanza dei bambini. Infatti, nessuno prima aveva fatto luce sulla situazione. Nel secondo esempio invece lo scontro tra tre procure complesso e distorto dalla stampa ha invece prodotto direttamente un effetto devastante sull’immagine delle toghe. Dalle quali ci si aspetta azioni e mai re-azioni.
Tutto inizia nel 2005. Luigi De Magistris, all’epoca pm a Catanzaro, si occupa di reati contro l’amministrazione pubblica. In quell’anno avvia un’inchiesta detta «Poseidone». Si scava su finanziamenti destinati allo sviluppo del territorio. L’ipotesi accusatoria è che quei soldi finiscono invece a società vicine a politici locali. Tra questi un ex magistrato. Nello stesso periodo De Magistris parte con un’altra indagine. La famosa «Why Not». Qui si tocca Comunione e Liberazione e col tempo si arriva fino a Clemente Mastella. All’epoca Ministro della Giustizia. E persino Prodi (presto archiviato). Le accuse sarebbe legate a presunti favori, posti di lavoro.
Insomma, un connubio dal quale, stando all’impianto accusatorio, non si sottrarrebbero nemmeno alcuni esponenti della magistratura. Sempre in quel periodo De Magistris si occupa di una terza indagine delicata denominata «Toghe lucane» e cioè un’indagine su abusi d’ufficio ed altre fattispecie commesse da magistrati che operavano nel distretto della Corte di appello di Potenza. Anche in questo caso ipotetici legami tra toghe, politica e non solo. Il giudice naturale è quello del luogo in cui avviene il reato. Questa regola, per evidenti ragioni di opportunità, non vale per i magistrati, per i quali, fino al 1998, valeva il principio per cui era competente la Procura del distretto della Corte di Appello più vicina. Dopo il legislatore crea un meccanismo rotatorio. Nello specifico, la Procura di Catanzaro è competente a indagare i magistrati del distretto della Corte d’appello di Potenza. Per i magistrati del distretto di Catanzaro è competente la Procura di Salerno. Per quelli di Salerno, è competente la Procura di Napoli.
Dunque, De Magistris, legittimamente, si occupa di presunti reati commessi dai magistrati lucani. La premessa sul meccanismo è però d’obbligo visto lo scontro aspro che seguirà qualche anno dopo, scontro che costringerà Giorgio Napolitano, in veste di capo del Csm, a intervenire direttamente.
Quando nell’inchiesta «Poseidone» comincia a emergere il coinvolgimento a carico di un senatore locale, De Magistris decide di iscriverlo nel registro delle notizie di reato in forma inusuale, in quanto, per timore che ne vengano a conoscenza il Procuratore e l’aggiunto, co-assegnatari del procedimento, non inserisce l’iscrizione nel registro informatico dell’Ufficio. Evidentemente il magistrato ora sindaco di Napoli non si fida. Ma quando il procuratore viene a conoscenza dell’anomala procedura toglie la delega a De Magistris. Quest’ultimo, informato dell’atto, ritenendolo illegittimo e penalmente rilevante, prende il fascicolo e lo trasmette alla Procura di Salerno, ufficio competente a indagare sui magistrati di Catanzaro. Il Procuratore reagisce, segnalando la vicenda agli organi competenti per l’azione disciplinare, tra cui il Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, anch’esso coinvolto nell’inchiesta (ne uscirà a testa alta).
Scoppiata la bolla, si aggiungono subito i magistrati lucani. Anch’essi si rivolgono a Salerno. Ma per motivi opposti. Si sentono vittime di un complotto mediatico a loro danno e presentano diverse denunce per diffamazione contro De Magistris. Gli ispettori del ministro Mastella chiudono la loro indagine e ravvisano una serie di illeciti nel confronto del pm “arancione”. Nel settembre del 2007 suggeriscono il trasferimento (cosa che avviene nell’estate del 2008). Contemporaneamente De Magistris indaga Mastella. Il procuratore capo di Catanzaro avoca il fascicolo e poco dopo, nel gennaio del 2008, il senatore Udeur esce dal governo. Prima dà un appoggio esterno e poi fa crollare Prodi. Le tre inchieste giudiziarie di De Magistris si fermano per un anno. Ma Salerno va avanti con le proprie inchieste. Archivia le accuse provenienti da Potenza contro De Magistris e chiede più volte gli atti dell’inchiesta «Why Not» ai cugini di Catanzaro. Botta e risposta su tecnicismo vari, finché Salerno si decide per un decreto di sequestro. Prima volta nella storia.
Il 3 dicembre 2008 vengono perquisite anche le case dei pm di Catanzaro, uno sostiene di essere stato denudato. Scatta la solidarietà della politica e la reazione indignata di molti magistrati. Salerno opera nel solco della procedura, ma calpesta la diplomazia e commette una svista enorme. Nel decreto inserisce tutte le 1.500 pagine che aveva ricevuto da De Magistris. Con tanto di intercettazioni e registrazioni ambientali. L’indomani Catanzaro indaga ben sette magistrati di Salerno per abuso d’ufficio e interruzione di pubblico ufficio. Da Catanzaro dichiarano: «Subito atto eversivo».
Scoppia l’inferno. Intervengono l’Anm, il Csm e, come scritto prima, pure Napolitano. Il 9 dicembre con la mediazione/imposizione del Csm le due procure fanno pace. A ciascuno le rispettive competenze. Ma la frittata è ormai caduta per terra ed è difficile rimediare. Che cosa rimane? De Magistris è sindaco di Napoli dopo essere stato eurodeputato.
Le inchieste «Poseidone» e «Toghe Lucane» sono state archiviate. «Why Not» è proseguita ma decisamente ridimensionata. Dunque, quella che è stata definita guerra tra toghe è in realtà uno scontro tra interpretazioni, ma l’effetto non cambia. Non ha aiutato nessuno a fare luce sui fatti. La domanda originaria era: c’è malaffare in Calabria e in Basilicata? E ci sono magistrati che hanno chiuso un occhio?. Sì o no. Tertium non datur. E invece il cittadino è più confuso di prima. E per via di queste vicende gli sarà più difficile essere cittadino.