Come molte altre cose su Twitter, la discussione è nata da un messaggio di Filippo Sensi (alias @Nomfup) che, in un dialogo con Fabio Chiusi (@fabiochiusi), riporta la foto dell’editoriale di oggi di Nicola Porro, secondo cui la politica parlamentare – esemplificata dalle elezioni del Presidente della Repubblica – si fa influenzare in eccesso da ciò che accade per l’appunto su Twitter. Nella fattispecie, l’idea di Porro è che reazioni entusiastiche ad un certo messaggio lanciato da un politico su Twitter (ad esempio in termini di retweet a valanga) inducano i politici stessi a pensare che questo sia l’umore «della gente», cioè una rappresentazione veritiera e corretta della pubblica opinione.
@fabiochiusi Nicola Porro oggi: twitter.com/provo2000/stat…
— nomfup (@nomfup) 21 aprile 2013
Al messaggio di @nomfup risponde Arianna Ciccone (fondatrice del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, @_arianna) lamentandosi che «questa stronzata la sentiremo sempre più spesso», verosimilmente riferendosi al concetto dell’influenza di Twitter sulla politica. Non sarò molto elegante, ma in quel bar alla Guerre Stellari che è Twitter mi sono sentito in dovere di entrare a piè pari nella conversazione, in questi termini: «non mi sembra così una stronzata. politici sono + influenzabili da parte di cerchie su Twitter che cittadini». Il mio argomento è che Twitter – come altri social network, ma in misura maggiore – non è un campione rappresentativo della popolazione italiana; tuttavia, il fatto che ospiti le conversazioni intense di politici, giornalisti e opinion maker può indurre effetti sui comportamenti «al di fuori della rete» da parte di chi vi partecipa.
Intendiamoci: non è detto che un social network come Twitter sia sempre in grado di influenzare comportamenti a livello macro, come l’esito delle elezioni, ma non mi stupirei del fatto che sia in grado di cambiare i comportamenti micro di coloro che lo utilizzano per ottenere informazioni ed in generale «farsi un’idea». Ad esempio i politici che vogliono sondare le opinioni dei propri elettori e simpatizzanti, correndo il rischio di prendere la parte per il tutto, cioè chi interagisce su Twitter per l’intero insieme di cittadini politicamente vicini.
La discussione a proposito di Twitter dentro Twitter prosegue, con Arianna Ciccone che mi domanda quali dati abbia a disposizione per sostenere la mia tesi: sul punto vi sono economisti e scienziati politici applicati ancora più intransigenti di me. La mia posizione è che per dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di un nesso di causalità tra fenomeni sociali (nella fattispecie: utilizzo di Twitter ed esiti politici) servono molti dati, e una «strategia empirica» rigorosa, tale per cui si riesca a riproporre qualcosa che assomigli ad un esperimento scientifico. Che cosa intendo per esperimento scientifico? Una somministrazione di Twitter data a caso ad alcuni e ad altri no, con il fine di verificare se il gruppo “trattato” (cioè che utilizza Twitter) si comporta diversamente da chi non lo utilizza. Dal momento che la scelta di utilizzare Twitter non è casuale ma è determinata da fattori individuali e sociali che molto probabilmente hanno a che vedere con il comportamento politico dei soggetti coinvolti, addio esperimento e addio dimostrazione rigorosa della causalità: dal punto di vista empirico si può solo sperare di avere a disposizione altre variabili che contribuiscano a spiegare il comportamento politico e sui social dei soggetti che ci interessano, ma la dimostrazione rigorosa di causalità è lontana. Al massimo, come scrivono gli scienziati sociali applicati, abbiamo trovato qualche interessante“correlazione”, ma guai a parlare di causazione.
La questione è anche di tipo professionale: come ho risposto ad Arianna qui – in maniera piuttosto tranchant, lo ammetto – vi sono “dati” che per un giornalista con preparazione umanistica sembrano poter dimostrare la presenza o l’assenza di un legame causale, mentre quegli stessi dati per uno scienziato sociale applicato come il sottoscritto appaiono come largamente insufficienti rispetto al fine prefissato, cioè non sono in grado di dimostrare nulla o il contrario di nulla. Se le cose stanno così, la discussione sull’influenza di Twitter sulla politica resta nel regno delle opinioni, senza che si possa qualificare fondatamente una certa opinione come «una stronzata».
.@_arianna @fabiochiusi @nomfup quelli che sono ’dati’ per un giornalista talora non lo sono abbastanza x uno scienziato politico applicato.
— Riccardo Puglisi (@ricpuglisi) 21 aprile 2013
In questa bella ed interessante discussione – che mi ha divertito assai – sono anche intervenuti Fabio Chiusi e Tommaso Ederoclite, sostenendo tra le altre la tesi secondo cui basarsi sui soli dati costituisca una forma di «riduzionismo» per cui il contesto – e le argomentazioni stesse – non hanno un ruolo residuale nello spiegare i fenomeni. La mia posizione è ancora una volta piuttosto netta: in assenza di
(1) dati esaurienti,
(2) una conoscenza buona della statistica,
(3) una strategia empirica sensata (la più vicina possibile ad un esperimento),
le argomentazioni possono certamente illuminare angoli importanti del reale, ma bisogna avere piedi di piombo (e scarpe di tungsteno) prima di formulare giudizi perentori sul fenomeno x che causa il fenomeno y. Si tratta a mio parere di un problema generale che caratterizza i dibattiti politici e giornalistici nei diversi paesi, ma tale problema è ancora più rilevante in paesi come il nostro, in cui l’eredità crociana di scarso apprezzamento per la matematica e per le scienze naturali produce ancor oggi conseguenze «subottimali» (per non dire peggio).