Chissà se tra qualche anno Tom Wolfe ambienterà un romanzo nella Silicon Alley newyorchese, tra i nuovi “padroni dell’universo”, o se la versione 2.0 del Patrick Bateman di Ellis indosserà una felpa col cappuccio e venderà applicazioni, piuttosto che spostare capitali in abiti gessati. Perché chi identificava il mondo del web e dell’high-tech con il sole della California, il garage di Menlo Park e l’universo creativo di Stanford deve ricredersi. Diecimila posti di lavoro negli ultimi quattro anni, con un aumento del 32 per cento degli accordi di venture capital: New York mira ad insidiare nel lungo periodo il primato della West Coast e a diventare la capitale delle start-up basate sulla rete.
Il grafico pubblicato recentemente dal Dipartimento per il Lavoro della Grande Mela, relativo al quinquennio 2007-2012 è eloquente. C’è una curva discendente, pari al dieci per cento, accanto alla dicitura “securities and banking”, ovvia conseguenza della crisi che sta segnando un’epoca. E c’è un’altra curva, ascendente, che mostra una cifra speculare, più dieci per cento, a fianco dell’etichetta “hi-tech”.
Vinicius Vacanti, trentuno anni, è stato folgorato sulla strada dei new media dopo aver ascoltato una conferenza del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg. Si è lasciato alle spalle le esperienze di lavoro per due fondi di private equity, Blackstone Group L.P. e Quadrangle Group Llc, e ha fondato Yipit, una società che gestisce un sito di shopping a basso costo, di cui adesso è amministratore delegato. «L’opportunità per la mia generazione non è nel mondo della finanza», sostiene, con una di quelle frasi che si fanno flashforward e credono di esprimere un sentire comune. Ma molti altri imprenditori newyorchesi potrebbero rispondere alla maniera di Vacanti, come Warby Parker, che vende on line occhiali vintage, offrendo al cliente la possibilità di ricevere a casa, gratis, cinque paia, tra cui scegliere quello giusto. Oppure i titolari di 1stDibs, che presidia il mercato delle antichità, orologi, mobili, gioielli.
In origine la Silicon Alley era solo il nomignolo giornalistico, creato in assonanza con la Silicon Valley californiana, dell’area di Manhattan, dal Flatiron District fino a Soho e a Tribeca, in cui si concentravano le aziende dei new media, ma ora l’high-tech si è diffuso a macchia d’olio in tutta la città. La consacrazione dell’argomento come mainstream è arrivata da Girls, la serie tv nata dalla fantasia della giovanissima Lena Dunham, fenomeno di costume per la quale i paragoni con Sex and the City si sono ormai sprecati. Ebbene, uno dei protagonisti, un ragazzo newyorchese, Charlie, diventa improvvisamente ricco dopo la fine della propria storia d’amore. Come? Creando (e vendendo lautamente) una app ispirata alla rottura sentimentale.
D’altronde, bisogna considerare il contesto. Le università della Ivy League continuano a sfornare laureati la cui aspirazione massima resta un posto al sole nel cuore di Wall Street, ma il toro non gode di una buona salute, e soprattutto di una buona immagine, in tempi recenti. Le banche di investimento non sono più i motori del progresso, ma gli untori della crisi, agli occhi dell’opinione pubblica. Le misure introdotte per regolare i mercati, dal Dodd-Frank Act ai tagli per bonus ed emolumenti dei manager, hanno reso meno appetibile la carriera nel mondo della finanza.
Fondare una start-up high-tech non è forse meno stressante, o meno rischioso, ma comporta poche rigidità e soprattutto uno spazio totalmente aperto al talento individuale. Matt Minoff, che ha lasciato la banca di investimento Allen & Co. per diventare il chief executive di Selectable Media, una compagnia che aiuta gli editori a servirsi della pubblicità per vendere contenuti digitali, riassume il concetto: «Lavorare 18 ore al giorno, sette giorni la settimana, non può non colpire la psiche. Adesso sono impegnato per tantissime ore, ma posso decidere come organizzare la mia giornata e soprattutto posso costruire qualcosa di nuovo e di mio».
Darrell Silver, ex lavoratore di un hedge fund, oggi titolare di Thinkful, una società di online education, aggiunge un altro elemento: «L’high-tech è collaborativo, in finanza è l’opposto». Non a caso Silver riceve in continuazione i curricula degli impiegati delle grandi istituti di credito.
I vantaggi per le start up newyorchesi sono notevoli: un ambiente imprenditoriale variegato, una grande facilità nel reperire i capitali, il sostegno del sindaco Bloomberg, che ha lanciato l’idea di un campus di scienze applicate, a sostegno dello sviluppo tecnologico. A differenza delle imprese del Golden State, la cui visione è spesso ad ampio respiro, quelle della Grande Mela spesso mirano direttamente al singolo consumatore e sono finalizzate a risolvere un problema specifico.
Negli ultimi anni la crescita del settore non si è limitata a New York, ma si è estesa ad altri centri dell’America obamiana, contando spesso sulla lungimiranza di sindaci illuminati, come a Detroit e a Pittsburgh, che hanno proposto sostegno finanziario e incentivi di varia natura. Anche a Las Vegas l’investimento nella rete è stata la strada scelta per riconvertire un’economia fortemente colpita dalla crisi, perché troppo dipendente da edilizia, turismo e gioco d’azzardo.
Adesso, a qualche miglia di distanza dalla Strip, la strada degli alberghi di lusso e dei casinò, sorge un’area popolata da decine di start-up, frutto in gran parte degli investimenti della Zappos di Tony Hsieh, colosso della vendita on line di abbigliamento e calzature. Hsieh ha riversato nella downtown di Las Vegas 350 milioni di dollari, di cui cento per il nuovo quartier generale e cinquanta per lo sviluppo di start up high-tech.
La Zappos intende costruire una piattaforma tecnologica che gli imprenditori locali possano condividere per tagliare i costi. D’altronde, la scelta del Nevada non è causale. Proprio a Las Vegas ha sede Switchnap, il più grande data center del pianeta, a cui si rivolgono aziende private e agenzie governative. Costruito tredici anni fa, ironia della sorte, su impulso della Enron.