Boldrin nuovo presidente di Fare per Fermare il Declino

La vittoria al congresso nazionale

Fuoco di paglia o araba fenice? Fare per Fermare il declino, il partito che fu di Oscar Giannino, si trova di fronte a questo bivio. Dopo il deludente risultato elettorale a febbraio (1,1%) e dopo mesi di semi-anarchia Fare esce dal congresso nazionale, tenutosi a Bologna l’11 e il 12 maggio, con una nuova direzione nazionale ed un nuovo presidente, l’economista nato a Padova Michele Boldrin, 56 anni. La posta in palio adesso è niente di meno che la sopravvivenza del movimento.

La vittoria di Boldrin domenica non è stata una sorpresa. Il 4 e 5 maggio si sono tenuti i congressi regionali, dove i 10 mila iscritti di Fare hanno potuto votare on-line le dirigenze locali e 100 delegati per il congresso nazionale (l’affluenza è stata del 54% degli aventi diritto). Questi 100, in un sistema “all’americana”, dovevano dichiarare anticipatamente il candidato a cui avrebbero dato il voto. Si è così arrivati alla conta già sapendo che il 60% dei delegati avrebbe sostenuto Boldrin, circa il 30% la candidatura di Roberto Italia – esponente dei comitati territoriali su cui era caduto l’appoggio anche dell’area di Giannino e De Nicola – e il restante Riccardo Gallo. Anche la direzione nazionale, completamente rinnovata, rispecchia gli equilibri interni. Su otto nomi (escluso quello del presidente), tre sono andati in quota Roberto Italia – tra questi Silvia Enrico, già coordinatrice nazionale pro tempore dopo lo scandalo dei falsi titoli di Giannino – e gli altri cinque in quota Michele Boldrin.

La composizione sarà a breve nuovamente stravolta. Su richiesta unanime dell’assemblea si terranno infatti delle nuove votazioni on-line domenica 26 maggio per allargare la segreteria fino ad un totale di 24 partecipanti. Sarà loro responsabilità la stesura del programma e l’attuazione della linea politica. Non ci saranno “comitati di saggi” o simili a cui delegare queste competenze.

Il giorno dopo la sua vittoria Michele Boldrin è in Spagna, a Palma di Maiorca. Quando non è negli Stati Uniti – dove insegna presso la Facoltà di Economia della Washington University in St. Louis – è qui che vive, anche se adesso sarà in Italia molto più spesso. «Sono in anno sabbatico», conferma Boldrin raggiunto al telefono, «quindi non avrò problemi a fare avanti e indietro. Poi a novembre tireremo le fila di questa avventura politica e deciderò cosa fare, se trasferirmi in Italia e lasciare il lavoro negli Usa oppure no».

Qual è l’obiettivo immediato e cosa invece conta di riuscire ad ottenere per novembre, quando ha posto il termine del suo mandato?
Bisogna subito rimettere in sesto la macchina del partito, che era funzionante fino a metà febbraio, e vedere se il nostro messaggio, riformulato da persone nuove, continua a piacere. Non dobbiamo commettere gli errori del passato, quando abbiamo peccato di poca capacità di cooperare con altre forze e non siamo stati in grado di sfruttare le tante competenze che abbiamo al nostro interno. Io voglio una squadra ampia, non due o tre professorini com’era sembrato ad un certo punto. Da qui a novembre poi mi sono dato l’obiettivo, e l’ho detto anche domenica durante il congresso, di recuperare almeno la metà degli aderenti che avevamo quando abbiamo raggiunto l’apice di 80 mila persone. Ora abbiamo 10 mila tesserati, quindi dobbiamo quadruplicarli. Ma al di là dei numeri, dobbiamo acquistare peso politico, coinvolgere i tanti soggetti liberali e riformatori – penso ad associazioni, fondazioni, liste civiche e simili – che ora come ora non hanno una casa. Se ce la faremo a quel punto valuterò se passare la mano ad altri, cosa che auspico, o se rimanere io alla guida del partito. Se non ce la dovessimo fare io, molto pragmaticamente, dico che tanto vale chiudere questo progetto e farne partire un altro. La politica è come il sesso, servono grandi passioni. Ma proprio per questo un elettorato che si sente tradito potrebbe non voler tornare nella vecchia casa. Se così fosse si dovrà trovare un’altra forma per portare avanti le istanze liberali in questo Paese.

Quando parla di “cooperare” con altre forze pensa a possibili alleanze future?
In generale mi sembra prematuro parlarne. Stiamo rinascendo ora, di alleanze parleremo quando sarà il momento. A livello locale in alcuni comuni comunque abbiamo stretto dei patti, ad esempio a Treviso con Lista Civica, a Siena ed in altre cittadine con liste locali. Quando parlo di “altre forze” però mi riferisco più che altro ad associazioni, elettori, anche singoli deputati che potrebbero essere interessati alla nostra proposta politica riformatrice. Con il governo Letta che tira a campare, secondo noi la situazione non farà che aggravarsi. Servono delle riforme radicali e per ora non sembrano all’orizzonte.

Ritenete che la crisi del sistema partitico vi possa lasciare “ampie praterie” in cui raccogliere voti?
Non guardiamo solo ai progressisti delusi del Pd, agli autentici liberali del Pdl o agli orfani di Monti. Le nostre idee potrebbero interessare anche una buona metà di quei nove milioni di elettori italiani che hanno votato Grillo. Abbiamo proposte contro gli sprechi e i privilegi della casta e negli altri ambiti il nostro programma è il migliore. Certo, per vederlo bisogna anche saper andare oltre la propria legittima incazzatura.

Che ruolo ritiene debba avere in futuro Oscar Giannino in Fare?
Per me è auspicabile che rimanga nel partito, come aderente, come militante…insomma comunque sfruttando le sue capacità e lavorando per diffondere il nostro programma. 

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