Così i “giovani” democristiani si sono presi il governo

Effetto Letta nell’esecutivo e in Pd e Pdl

È stato unanimemente sottolineato l’alto tasso di “democristianeria” nella composizione dell’esecutivo di larghe intese guidato e formato da Enrico Letta. Quello che invece non si è colto è il passaggio logico successivo. Ovvero che non si tratta di vecchie cariatidi sopravvissute al ventennio seguito alla scomparsa della Dc, quanto piuttosto di un plotone di quarantenni giunti alla prima fila della vicenda politica e in gran parte segnato dall’impronta di una comune formazione. In sostanza l’ultima generazione cresciuta alla scuola politica dell’antico Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana.

Infatti, pur tra le diverse attuali appartenenze politiche, l’origine e la formazione è decisamente comune. Vale, quanto a ministri, per Letta, Franceschini, Del Rio da un lato e sull’altro versante per Alfano e Lupi, come pure nell’area centrista per Mauro e D’Alia. Ma anche altri esponenti coetanei sono stati in passato assidui frequentatori degli incontri rigorosamente bipartisan convocati da Letta in vari organismi culturali (come il gruppo “VeDrò” che si ritrova ogni autunno a Drò in Trentino). È il caso, restando nella squadra di governo, di Beatrice Lorenzin o della studiosa di biorobotica Carrozza. Con in più la nota personale di Nunzia Di Gerolamo, del PdL, sposa felice del Pd Francesco Boccia, braccio destro del medesimo Letta.

Dunque c’è una scuola trasversale che ha unito più di quanto si pensi questa generazione politica, pur dispersa nell’attuale collocazione parlamentare, ma cresciuta di fatto su contenuti e su valori comuni e tenuta insieme da lungo tempo proprio da Enrico Letta, uomo a pelle non simpaticissimo e tuttavia capace di nascondere la vocazione antica di “primo della classe” sotto una insistita e a volte affettuosa cortesia.

La consuetudine di rodate relazioni umane e l’amicizia scaturita da un forte senso di solidarietà generazionale in competizione con i più attempati ha fatto il resto. In gran parte espressione del Centro-Sud (al Nord era piombato agli inizi degli anni Novanta il ciclone della Lega) questo gruppo è l’ultimo “prodotto” di un ricco vivaio di formazione all’incarico pubblico. Con il più il riservato orgoglio di coltivare comunque il primato e l’autonomia della politica da qualche eccessivo condizionamento, non escluso il peso dell’informazione.

Semmai, nell’abitudine a confrontarsi con esperienze diverse, il buon senso di mantenere una curiosità per le altre storie politiche e una sensibilità più nuova al quadro europeo e mondiale e alla necessità di solidi rapporti internazionali. Con un più quasi un rimpianto, trasmesso almeno dai padri, per l’assenza di un corrispettivo modello di formazione che occupasse il vasto campo della sinistra tradizionale.

In fondo, nel bipartitismo imperfetto che aveva accompagnato l’intera Prima Repubblica, la Fgci (i giovani comunisti) da un lato e il Giovanile Dc dall’altro avevano convissuto da leali avversari, studiandosi a vicenda (sia nei contenuti che nelle personalità) e rispettandosi reciprocamente come esponenti dei grandi partiti e delle culture autenticamente popolari. Il cronista, al quale capitava di incrociarli insieme nelle infrequenti occasioni di incontro, restava colpito dalla curiosità sincera e da una certa qual invidia degli uni verso gli altri.

Infatti i cuccioli Dc apprezzavano della Fgci la serietà e la disciplina, il rigore e la compattezza (e un certo stile di vita puritano, imposto da Berlinguer che proponeva come esempio Santa Maria Goretti); mentre i virgulti comunisti spiavano degli altri la consuetudine e il fascino del potere e una chiara più gaudente vitalità ben diversa dal loro duro apprendistato alla carriera politica.

Esauriti poi i serbatoi tradizionali, e cioè le parrocchie e le Frattocchie (le prime più indirizzate al sociale post-conciliare e le seconde, il mitico convitto alle porte di Roma, ormai inutilizzate) la Dc aveva coltivato comunque le sue scuole di formazione in una chiave più “laica”, meno collegata alla Chiesa e più attenta al quadro internazionale. La sinistra invece (e soprattutto l’apparato diessino) si era immersa nella modernità e negli strumenti della comunicazione, coltivando e diffondendo in una miriade di associazioni una “cultura dell’autosufficienza”, un recinto di mode, di spettacoli, di new-media autoreferenziali, segnati da un evidente complesso di superiorità verso i “subumani” del berlusconismo. Perdendo così, oltre al polso complessivo del Paese reale, il gusto e l’intelligenza di studiare e di conoscere “l’altra Italia”, quella da seguire ed eventualmente da persuadere.

Si spiega forse anche così lo sconcertato rancore con cui adesso l’anima giovanile ex-diessina manifesta la sua delusione e occupi le sedi del Pd, con la rabbia di non riuscire a comandare da soli. Non soltanto per l’accordo obbligato con il nemico antropologico, quanto piuttosto per l’emergere egemonico proprio all’interno del Pd dell’anima “altra”, quella che appariva da tempo circoscritta ad un ruolo comprimario e subalterno.

E forse, sarà un paradosso, sembra compiersi, se questo governo reggerà alla difficile prova dei fatti, l’antica ambizione “ulivista”, quella della vecchia sinistra democristiana, che si poneva come “stato maggiore” pensante e politicamente alla guida dell’esercito di una sinistra rimasta orfana dei suoi miti e dei suoi riti. Una generazione dopo, Enrico Letta su un versante e Matteo Renzi su un altro ne appaiono ora e in prospettiva gli esecutori più agguerriti.  

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