CineteatroraDesiderio di libertà, l’arte in Europa dopo il 1945

Fino al 2 giugno al Palazzo Reale di Milano

Le coordinate spazio temporali, a margine delle catene geopolitiche, attraversano da sempre l’arte e il suo rapporto con i cambiamenti più critici ed epocali. Eppure, è intenzione evidente della mostra “The desire for freedom. Arte in Europa dal 1945” – in programmazione fino al 2 giugno 2013 a Milano, Palazzo Reale – non seguire un percorso di tipo cronologico nell’analisi degli ondeggiamenti o, viceversa, delle istanze precise che hanno condotto 94 artisti contemporanei provenienti da 27 Paesi della comunità europea a confrontarsi sul tema della libertà a partire dal dopoguerra.

Inaugurata il 14 marzo, con una seconda tappa prevista dopo Milano a Tallinn, “The desire for freedom” si snoda attorno a una dozzina di sezioni, ciascuna incentrata su un ritorno tematico che si interroga sul diritto e la sua inalienabilità sancita dalla Dichiarazione universale del 1948. Ci si muove in un itinerario non collaudato da linearità geografiche o metodologiche, ma riflesso in una concentricità tutta contemporanea di rovesciamenti di formule solenni, ricreazione del mondo nella testa dell’artista e convivenza forzata con il passato e il presente di regimi di torture, ma anche con le ossessioni della new economy. 

Nel prologo dei Bidoni imballati (1958-59) di Christo si coglie già il rilancio perpetuo dell’arte a non farsi ottundere, ma a smuovere la memoria con i manifesti rivoluzionari del 1789 in cui la libertà si contrapponeva alla morte negli epitaffi dei demagoghi Marat e Robespierre. Jannis Kounellis in Senza titolo (1969) ne ripropone sull’acciaio la scritta devozionale e l’incitamento. Qui la sintomatica suddivisione dei poteri e blocchi che la Guerra Fredda ha imposto propende, invece, verso una circolarità che dalla fondazione del pensiero illuminista a essa fa ritorno senza demarcazioni nette, ma ibridazioni costanti. 

Nello specifico, la condotta filosofica che dalla presa della Bastiglia passa per le derive del terrore, presupponendo un sapere enciclopedico cui tutto fa capo secondo gli assoluti e le ipocrisie del positivismo, si trasforma in una venerazione dell’eroe capovolta di segno. Ave, Marat (1989) di Ian Hamilton Finlay si avvale, a proposito, di plexiglas e tubi al neon per riprendere il sacro saluto all’eroe tracciando nei rossi, bianchi e blu delle luci non semplicemente la bandiera d’Oltralpe, ma il rischio che dall’astrazione della libertà si arrivi al sovvertimento della stessa. Tutto corre il pericolo della distorsione, allora come oggi, dal libero pensiero agli illeciti dei mercati liberi resi teoria proprio dai cervelli illuminati. 

La non risposta dell’arte a un’umanità acefala o mascherata dalle guerre è allora la ricostruzione di un’asse della memoria, come ne La strada (1958) di Oskar e Zofia Hansen, progetto mai realizzato per una strada asfaltata lungo l’architettura razionalista di Auschwitz-Birkenau. Si fanno largo nelle stanze, già in epico contrasto con gli arredi antichizzati di Palazzo Reale, anche quelle tematizzazioni della rivoluzione femminista ben espressa dal video di Nil Yalter, Donna senza testa (1974): l’artista – in chiara risposta al grido di Joseph Beuys, La rivoluzione siamo noi (1972) – incide sul ventre parole contro tutte le violenze, sfida l’obbrobrio delle mutilazioni genitali e danza, infine, ma senza mostrare la propria testa a monito degli abusi. 

Una corrente ghiacciata proviene dalla furbizia estetizzante di Dead end jobs (1993) di Damien Hirst, che esibisce una vetrina di mozziconi di sigarette: il senso possibile è rispetto a un lavoro sconvolto dalla saturazione del mercato e dalla sua continua instabilità. Ben più frastornanti e in palese affondo le 18 fotografie di ebrei viennesi su cui Christian Boltanski proietta altrettante luci ne Il liceo Chases (1987). Quei volti in primissimo piano sgranato e fissato per sorrisi o accenni d’espressione provengono dalla scuola di Vienna che, tra il 1941 e il 1942, servì a radunare i cittadini destinati alla deportazione. 

Ian Hamilton Finlay, “Ave, Marat”

Dalla totalità all’uno, dalla strage ammessa alle spalle al dopo dei fatti racchiuso nel tentativo dell’artista di confrontarsi con i conflitti più atroci. Stessa dinamica di urgenza in Anselm Kiefer, che all’Accademia di Belle Arti si presenta con Sei quadri dalla serie Occupazioni (1969), autoritratti fotografici in posa da saluto tedesco. Un’esplorazione all’indietro fino alle radici, con un’uniforme scovata in soffitta e l’attraversamento documentato delle sei regioni occupate dai tedeschi intenti a vagare per il mondo con aria da vittime.

Nella dinamica mai fortuita dell’artista europeo e aspirante libertario si riaprono ogni volta ferite insanabili nel rapporto con energie atomiche e camere di soprusi irregimentati. Da Pittura (1953) di Enrico Baj, con una forma a “otto” infinito di olio su tela che ricorda la sagoma distruttiva di Hiroshima, a Suzuki (1963) di Jean Tinguely, che in una scultura deformante fonde oggetti ritrovati in discarica con residui di crateri delle bombe. Il silenzio non è più d’obbligo, ma calcano il palcoscenico terrore e tenebre connesse al progresso. Anche Niki de Saint Phalle in Bed (1961) accosta su legno e tecnica mista una scarpa a un canestro senza farne una casualità caotica, ma affidando agli oggetti la memoria del corpo infantile uscito da se stesso. 

Il criterio della morte scavata dai totalitarismi è poi l’occhio sulla Bara di guerra di Gunther Vecker (1968) e, soprattutto, sulla Stanza degli interrogatori (2010) di Nikita Kadan, che stampa su piatti di fragilissima porcellana scene di sevizie inflitte a testimoni inerti e neutri come in una tavola di istruzioni per l’uso. Lo strapotere quotidiano e il trafugamento della libertà sgorgano dalle dichiarazioni illuministe per intridere di sé le occupazioni irlandese e cecoslovacca, il socialismo polacco e il muro berlinese, e si intestardiscono con videoproiezioni, manifesti, stampe e tele che rincorrono il leitmotiv di una libertà da difendere a ogni costo, mentre tensioni e attentati tendono un filo sempre più immaginario tra Stato e individuo. 

Dal collage dei Bombardieri di rossetti(1968) di Wolf Vostell, dove un bene di consumo è l’alternativa alle bombe dei B-52 impiegati in Vietnam, fino a Elmo (1950) di Henry Moore, in cui un elmo di piombo ingabbia una sagoma deformata, si passa a Diario berlinese assurdo ’64 Plurimo X (1964) di Emilio Vedova. Quest’ultimo una miscela teorizzata di smalto, tempera, graffito e collage su legno per rinnovare l’ennesima circolarità estenuante della libertà e del suo assedio. E così Trincea portatile per tre persone (1969) di Tamas St. Auby, che applica della garza imbevuta di zolfo a canne e assicelle di legno, metaforizza una barella incapace sia di difendere, sia di sostenere il peso della repressione della Primavera di Praga. 

Le ultime righe sull’affrancamento degli artisti europei da un mondo abbrutito e sregolato dagli esuberi abbraccia lo sforzo della sostenibilità con 99 cent (2001) di Andreas Gurky: due enormi scatti di scaffalature ricolme di dolciumi e slogan della sovrabbondanza ridotta a spazzatura. E il segno dell’uomo che, secondo il movimento dell’arte povera fondato da Germano Celant, dovrebbe precedere il sistema, scova sopravvivenze possibili nell’igloo di Oggetto Cache-Toi (1968) firmato Mario Merz. Una cupola primordiale di sacchetti di lino, un limbo di truciolato e rete metallica dove le risorse non verranno sprecate. 

Ma non è ancora stato neutralizzato l’omino scarno della Gabbia(1949-50) bronzea di Alberto Giacometti in difesa sia di un Buddha (Naim June Parik, 1989) davanti a un televisore vuoto e con una candela all’interno, sia de Il concetto spaziale (1951) di Lucio Fontana o dell’anziana ritratta da Maria Lassnig in Tu o io (2005), mentre si punta una pistola alla tempia e ne dirige una seconda contro lo spettatore. Le responsabilità vanno divise e tra Albania, Azerbaijan, Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Serbia, Slovacchia, Spagna, Svizzera, Turchia, Ucraina e Ungheria galleggiano macerie di un diritto unico e inalienabile: «Alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona».

XXX mostra del Consiglio d’Europa

THE DESIRE FOR FREEDOM
Arte in Europa dal 1945

Milano, Palazzo Reale
14 marzo – 2 giugno 2013
INFO

Twitter: @GiuliaValsecchi

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