Nei momenti più difficili della sua storia recente l’Italia politica si è sempre affidata ai sindacalisti, forse per mancanza di fantasia o, chissà, di opzioni migliori. Solo i sindacati hanno ancora tessere, risorse e organizzazione, e rappresentano interessi e culture, ragionamenti e utopie: il sindacato è l’unica realtà stravecchia ma chiara d’Italia. E perciò non deve stupire troppo che il Pd oggi abbia chiamato Guglielmo Epifani, l’ex segretario confederale della Cgil, a fare da nocchiero nella navigazione più pericolosa della sua giovane esistenza, quella che da qui a ottobre, quando finalmente si terrà il congresso, attraverserà lo strettissimo e agitato passaggio del governo di larghe intese con Silvio Berlusconi. I sindacalisti sono stati chiamati a “salvare” il comunismo (Garavini e Bertinotti), a seppellire il Psi (Benvenuto e Del Turco), a far rinascere la Dc (Franco Marini), e adesso pure a traghettare il Pd tra i marosi di una complicata convivenza con un partito, il Pdl, che proprio oggi a Brescia, presente il vicepremier Angelino Alfano, è sceso in piazza per manifestare contro quei giudici che invece a Roma, nelle stesse ore, Epifani ha difeso.
Quanto, e come, potrà resistere il Partito democratico nel governo guidato da Enrico Letta ma sempre più identificato dalla base di centrosinistra con le sembianze ambigue del Caimano Berlusconi? Né Del Turco, né Bertinotti, né Marini sarebbero certamente riusciti a scalare le vette dei loro partiti se non si fosse aperta la voragine buia di Tangentopoli, se non fosse crollato il Muro, se non fosse cominciata la confusa avventura del maggioritario. Lo stesso vale per Epifani, mai sarebbe diventato segretario se la sinistra non fosse nei guai, al minimo storico dei consensi, se il Pd non avesse bisogno di rassicurare il suo popolo, l’anima profonda di un elettorato inquieto per l’aggressività di Bebbe Grillo, per la politica economica e del lavoro che Letta si prepara a fare sua, per l’abbraccio considerato incestuoso con quella destra che anche Matteo Renzi oggi ha indicato con preoccupazione: «Se rifiutiamo i voti in uscita dal Pdl poi finisce che, dal Pdl, ci dobbiamo prendere i ministri. E non so se ci conviene».
Nel passato, anche in quello prossimo, tutti i leader di partito nutrivano un superstizioso disprezzo per i sindacalisti, Luciano Lama veniva chiamato romanescamente “il manzo”, per Craxi «i sindacalisti in servizio sono dei rompicoglioni e quando smettono sono solo dei coglioni», Benvenuto venne ribattezzato dal suo stesso protettore Rino Formica “l’uomo che ride”, Del Turco era “er bucione”, e Bertinotti era per tutti “il matto”. Mai e poi mai la vecchia Dc o il vecchio Pci avrebbero tollerato un sindacalista come segretario, “sono gli scamiciati” diceva Fanfani, “animali selvatici” li chiamava Moro, “cafone come un sindacalista” imprecava sommessamente Giovanni Malagodi. E invece eccolo qui, Epifani, nuovo segretario del partito che ha messo insieme il Pci e la Dc. Ex tipografo, figlio di un mondo popolare, non è carismatico ma mette tutti d’accordo, non è brillante me è considerato affidabile, non è allegro ma è molto per bene. Anche Epifani, come i suoi predecessori sindacalisti divenuti leader politici, è emerso dalla crisi della partitocrazia, ha riempito un vuoto, è stato scelto perché non c’era scelta tra l’arrembante Renzi e il più felpato Letta, i due veri leader oggi nell’ombra, i duellanti che si confronteranno soltanto a ottobre nel congresso, quello vero. Epifani ha evitato una tragica conta interna, ha unito dov’era necessario unire, ha rappacificato le correnti (almeno per ora), ha dato un orizzonte seppur breve al partito sfilacciato e nel panico che sembrava vagolare nel nulla, consegnato a un lugubre destino. Non è certo il migliore leader possibile, né il più moderno nell’epoca in cui il lavoro passa dall’innovazione e non dal novecento fordista, ma la sua è una segreteria emergenziale che servirà al partito per tenere botta nell’indigesta alleanza con il Pdl. Nel frattempo Letta e Renzi, il premier e il giovane sindaco, avranno modo di studiarsi, di capire che fare l’uno con l’altro. E’ destino che si cerchino, si spiino, si sfuggano, in un conflitto tormentoso e profondo che potrebbe deflagrare in una guerra aperta, o sciogliersi – da qui a ottobre – in una nuova alleanza politica capace di rilanciare il Partito democratico verso il traguardo vincente delle prossime elezioni.