Giovannini, il mago dei numeri alla sfida del lavoro

55 anni, ha guidato l’Ocse e l’Istat ed è stato uno dei saggi di Napolitano

I più sono rimasti sorpresi: Enrico Giovannini al ministero del Lavoro? Non era meglio allo Sviluppo economico? Anzi, al Benessere equo e sostenibile (BES), tanto per citare il nuovo indice elaborato dallo stesso presidente dell’Istat, insieme con il Cnel (il primo rapporto è stato pubblicato l’11 marzo scorso). Invece no. Nella decisione ha influito senza dubbio il complicatissimo dosaggio politico, ancor più tortuoso in un governo di coalizione trasversale come questo. Mandare al Lavoro uno Stefano Fassina, sarebbe stato come appaltarlo alla Cgil. Sospetto che sarebbe stato valido per qualsiasi esponente del Pd. Offrirlo a un Pietro Ichino sarebbe stato, al contrario, uno schiaffo. Escluso che potesse tornare un berlusconiano dopo l’era Sacconi. D’accordo. Eppure, chi ha partecipato alla commissione di saggi istituita da Giorgio Napolitano, spiega che la scelta è tutt’altro che bizzarra. Al contrario.

Proprio Giovannini ha proposto, in quel consesso di esperti del quale ha fatto parte, un cambiamento immediato della riforma Fornero, diventata un caso di scuola di come si crea un’effetto boomerang o, direbbero i filosofi, una eterogenesi dei fini. La professoressa, espertissima di pensioni (teneva nel cassetto la riforma da anni e anni e l’ha realizzata in un batter d’occhio), non ha mai studiato il mercato del lavoro. Ma, soprattutto, nel suo candore accademico, non si è resa conto che stava mettendo il dito in un nido di vipere. In fondo, la stessa questione esodati è una conseguenza degli accordi più o meno sottobanco raggiunti dalle imprese, soprattutto le piccole in questo caso, per l’esodo consensuale dei propri dipendenti. Molte di quelle intese sono venute allo scoperto solo al momento in cui l’età pensionabile è stata spostata in avanti.

L’idea della Fornero poteva avere un senso sul piano politico-sociale: allentare le briglie per la cosiddetto mobilità in uscita (i licenziamenti individuali) e tirarle in entrata rendendo più cogenti le assunzioni dei contrattisti a termine e riducendo la grande sacca dei precari. Ammesso che lo scambio fosse corretto sul piano teorico (e qui i pareri divergono anche tra gli esperti, persino all’interno della Banca d’Italia), non si è capito che, in uscita, il dettaglio diabolico sta nel sistema giudiziario. È il grande problema dell’articolo 18: lascia troppo spazio ai giudici il che vuol dire aprire per l’impresa e il lavoratore un’incertezza che dura anni. In entrata, invece, la trappola si chiama recessione. In una situazione come questa era quasi inevitabile la reazione dei datori di lavoro, quella sorta di serrata sulle assunzioni che ha trasformato i milioni di precari in milioni di disoccupati.

Su entrambi i punti, Giovannini era stato molto chiaro, già dalla poltrona dell’Istat. Nel documento dei saggi, inoltre, viene indicato alla lettera quello che diventerà programma di governo (la mossa di Napolitano non era poi una perdita di tempo):

«Gli interventi sul mercato del lavoro devono essere adottati in un’ottica complessiva, valutando i pro e i contro delle diverse soluzioni, attraverso un dialogo continuo con le parti sociali. Per questo, il gruppo di lavoro ha scelto di concentrarsi esclusivamente su alcune possibili e circoscritte proposte volte a migliorare condizioni particolarmente negative che interessano alcuni settori della popolazione quali le donne, i giovani e i lavoratori a basso reddito, segnalando anche l’urgenza di migliorare le relazioni industriali (condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per rafforzare la coesione sociale). Poiché l’attesa ripresa di fine anno sarà caratterizzata per un certo periodo di tempo da incertezze sulla sua durata e intensità, vi è il rischio che le imprese siano estremamente prudenti nel procedere ad assunzioni a tempo indeterminato: per questo sarebbe utile riconsiderare le attuali regole restrittive nei confronti del lavoro a termine, almeno fino al consolidamento delle prospettive di crescita economica».

Dunque, contrordine compagni, marcia indietro prima di finire del tutto nell’abisso.

Si leveranno proteste a sinistra. Ma con i paraocchi ideologici si va solo a sbattere contro il muro del reale. E Giovannini ha messo da parte in tutta la sua carriera l’ideologia per lo studio concreto della situazione concreta. Dal luglio 2009, quando venne nominato presidente, a oggi, ha tuffato l’Istituto di statistica in uno studio capillare dell’impatto sociale della crisi. Il primo rapporto che porta la sua firma nel 2010 già comprende una serie di capitoli che verranno ampliati successivamente, proiettando le statistiche indietro nel tempo, analizzando in modo dettagliato quel che è stato chiamato “il decennio perduto” che ormai s’avvia a diventare un quindicennio. Il crollo della produttività delle imprese, la perdita del potere d’acquisto, la riduzione del reddito pro capite, l’emergere di una nuova povertà relativa, l’impatto sui giovani, la paralisi progressiva del mercato del lavoro, sostenuto esclusivamente dal ricorso alle nuove forme contrattuali. Tutto questo è stato documentato non solo con un arido elenco di cifre, ma con analisi qualitative.

Intanto, Giovannini introduce anche all’Istat, santuario della ortodossia, i nuovi criteri che ha cominciato a mettere a punto durante gli anni trascorsi a Parigi come capo dell’ufficio statistico dell’organizzazione che raccoglie i paesi più industrializzati. Perché la statistica non è la media di Trilussa, secondo la quale se io ho mangiato un pollo e tu no, risulta che abbiamo consumato mezzo pollo a testa. Al contrario, è uno scandaglio sociale sotto forma matematica. Insegue la realtà per approssimazione, anche se molto spesso, grazie all’effetto eco e alla manipolazione dei media, finisce per influenzarla.

Alla statistica Giovannini ha dedicato finora tutta la sua carriera. Nato a Roma nel 1957 si è laureato in economia alla Sapienza con il massimo dei voti nel 1981 e un anno dopo entrava come ricercatore all’Istat per occuparsi di contabilità nazionale: insomma il Pil, il prodotto interno lordo che è , a sua volta, una costruzione artificiale, volatile e volubile non solo per colpa dei cicli di boom e sboom che caratterizzano l’andamento della economia, ma perché dipende anche da come viene misurato. Gli uomini producono e scambiano, ma misurare quel che fanno, come lo fanno e quanto, è oltremodo complicato.

Nel dicembre del 1989 si trasferisce presso l’Istituto nazionale per lo studio della congiuntura (Isco) ove, come dirigente di ricerca, assume la responsabilità delle analisi di carattere monetario e finanziario. Nel gennaio del 1992 torna di nuovo all’Istat e nel dicembre dell’anno successivo è nominato responsabile del dipartimento di contabilità nazionale e analisi economica. Dal gennaio 1997 assume la direzione del Dipartimento delle statistiche economiche ed entra nel comitato strategico per l’introduzione dell’euro in Italia istituito presso il ministero del Tesoro. Dunque, c’è anche il suo contributo nell’introduzione della moneta unica. Anche se schiverà le cannonate che s’abbattono sull’Istat accusato di non aver misurato il vero impatto dell’euro sull’inflazione. Con gli anni si scoprirà che c’era molta propaganda. Tuttavia, la tempesta servirà a capire che nemmeno le statistiche ufficiali sfuggono alla critica dell’opinione pubblica, giusta o sbagliata che sia. Soprattutto, quegli attacchi hanno demistificato l’oggettività del metro di misura aprendo la strada a una revisione. Esattamente quello che, da un punto di vista diverso, stata cominciando a fare Giovannini a Parigi dove arriva nel 2001 come chief statistician dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

Sotto la sua direzione l’Ocse ha avviato una riforma complessiva del proprio sistema statistico, ha sviluppato un sistema informativo le cui componenti sono utilizzate da altre istituzioni internazionali (Onu, Fondo monetario internazionale, Unesco) e profondamente innovato i propri prodotti. Nel 2004 ha organizzato il primo Forum mondiale su “Statistica, Conoscenza e Politica”, a partire dal quale ha lanciato il “Global Project on Measuring the Progress of Societies”, progetto di ricerca globale sulla “Misurazione del progresso delle società”, condotto dall’Ocse in collaborazione con la Commissione europea, la Banca mondiale e le Nazioni unite, allo scopo di promuovere lo sviluppo di indicatori chiave (in campo economico, sociale ed ambientale), per fornire un quadro completo di come si evolve il benessere di una società. Il progetto cerca, inoltre, di incoraggiare l’uso di un insieme di indicatori per informare e promuovere il processo decisionale basato sull’evidenza, sia all’interno del settore pubblico, privato e dei cittadini, sia tra di loro. 

Torna nella sua Roma dal 24 luglio 2009 per presiedere il suo Istat. Intanto, entra nella “Commissione Stiglitz” istituita dal Presidente francese Nicolas Sarkozy e presiede il Global Council sulla “Valutazione del progresso delle società” creato dal World Economic Forum. Per il suo lavoro sul tema della misurazione del benessere delle società, nel 2010 ha ricevuto dal Centro internazionale Pio Manzù la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica ed è divenuto membro del Club di Roma. Dal 2011 è presidente della Conferenza degli statistici europei, della Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite. Inoltre, è presidente del boari del progetto “International Comparison Programme” condotto dalla Banca mondiale per il calcolo delle parità dei poteri d’acquisto a livello mondiale e presiede lo Statistical Advisory Board per il calcolo dell’Indice dello sviluppo umano del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite. Insomma una messe di riconoscimenti e di incarichi prestigiosi. “Non so più a chi dare i resti”, direbbe lui da buon romano.

Il 30 marzo viene chiamato dal presidente Napolitano tra i dieci saggi che avrebbero dovuto indicare le priorità per uscire dalla crisi economica e istituzionale. Precedentemente era stato chiamato da Mario Monti per studiare il taglio dei costi della politica e la differenza degli stipendi dei parlamentari italiani e quelli del resto d’Europa. Un passaggio propedeutico a un impegno più diretto.

Adesso si trova dall’altra parte del tavolo; tocca a lui trasformare quella realtà che ha così minuziosamente studiato. Dalla teoria alla prassi, un tuffo ad alto coefficiente di difficoltà, ma non un salto nel buio per un uomo come Giovannini. Anche se il Ministero del lavoro è davvero una macchina micidiale, politica come poche, perché mette subito in contatto con il nocciolo duro degli interessi organizzati, a cominciare dai sindacati del lavoro e del capitale. Non ci sono soltanto loro, la foresta delle lobby è fitta, il grumo delle resistenze è spesso; una delle principali palle al piede per il ritorno allo sviluppo è un mercato del lavoro ancora ampiamente ingessato. Riformarlo a piccoli passi o a pezzi, lo ha reso un patchwork incoerente. Ma una riforma organica in piena recessione è ad alto rischio di fallimento.

Tra i cavalli di battaglia di Giovannini c’è l’attacco alla disoccupazione giovanile, da lui analizzata e denunciata come bomba sociale quando era all’Istat. Dalla commissione dei saggi è emersa in modo netto la proposta di un credito d’imposta per il lavoro meno retribuito che può trasformarsi in reddito garantito nel momento in cui si perde il lavoro. A chi obietta che mancano le risorse viene risposto che, se funziona, può persino autofinanziarsi. Ma non c’è dubbio che trovare i quattrini senza creare nuovo debito sarà l’ostacolo principale. Il neo ministro insiste: «Ogni nuova risorsa deve essere destinata all’emergenza lavoro, la priorità delle priorità». Lo ha detto anche Enrico Letta e tuttavia la pietra di paragone è diventata l’Imu sulla prima casa dal forte contenuto politico-simbolico e dal ridotto impatto pratico: il 40% delle famiglie, quelle più povere, è esentato, e l’onere medio è stato inferiore a 300 euro al mese. Torniamo alla statistica di Trilussa e non a quella di Giovannini? No, torniamo alla priorità della politica. Anche a costo di andare contro «il principio di realtà».  

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