Parliamo di rischio dei modelli di rischio. È il momento di scendere nelle officine dove sono stati progettati, realizzati e forgiati gli strumenti per il controllo del rischio. Dopo aver discusso in articoli precedenti gli effetti della la regolamentazione sul funzionamento del sistema finanziario, e sulle sue difese immunitarie da epidemie e crisi, è giunto il momento di guardare dentro i laboratori dove si costruiscono gli strumenti di diagnosi del rischio. È il momento di affrontare l’accademia e quella parte dell’industria che si occupa di ricerca: i quant desk delle grandi banche. Come per la regolamentazione, troviamo casi in cui l’accademia più alta non ha capito il concetto stesso di rischio, discutendo per anni di lana caprina mentre il sistema si riempiva di rischi, e casi in cui non ha capito l’effetto che la misurazione del rischio può avere sulle decisioni prese dagli operatori in un ambiente finanziario competitivo.
Per capire cosa intendo per lana caprina, proviamo a pensare per un attimo che si tratti del rischio della sicurezza stradale. Cosa ne pensate di una regola che dice: in autostrada non si possono superare i 140 km l’ora? Probabilmente è una buona regola, ed è una regola che riguarda i conducenti delle auto. Ma cosa pensereste se ora arrivasse un matematico e vi dicesse: una buona misura di velocità non può rilevare valori maggiori di 140 km l’ora? Senz’altro una sciocchezza. Una buona regola per chi deve svolgere un’azione è una sciocchezza se applicata a una misura riferita a quella azione.
Beh, proprio questo è capitato nel rapporto tra accademia e rischio. Una buona norma di gestione del portafoglio è la diversificazione: ripartire gli investimenti su attività diverse in modo ridurre il rischio. Nella seconda metà degli anni 90, uno dei centri di ricerca più alla frontiera, l’ETH di Zurigo, attaccò gli strumenti di misurazione del rischio in uso nell’industria nella prima metà di quel decennio. E l’anatema era proprio che violavano il principio di diversificazione. Se ci pensate bene, è proprio la stessa cosa del limite di velocità in autostrada.
Per capirne di più, facciamo un esempio concreto. Mettiamo 1 miliardo di capitale economico a disposizione di un desk di titoli di stato. Vuol dire che quel capitale è destinato a coprire le perdite su quel desk con un certo grado di probabilità, ad esempio nel 99% dei casi (la misura del Var secondo Basilea II). Assumiamo di attribuire 1 miliardo, con lo stesso significato, a un altro desk di opzioni. Ora, gli esperti dell’ETH ci dicono che può succedere che se riunisco i due desk insieme, cioè ne sommo i profitti e le perdite, può venir fuori che ho bisogno di più di due miliardi di capitale economico. Molti di voi concluderanno semplicemente che non è bene mettere insieme le due attività: meglio tenerle separate, giusto? No, è troppo semplice. Per gli esperti di Zurigo non è l’operazione sbagliata, è la misura sbagliata.
Di nuovo: non è sbagliato guidare a una velocità superiore a 140 km l’ora, è sbagliato il contachilometri, che può registrare 200 km. È il contachilometri che non è “coerente”. E su questo colossale equivoco i matematici hanno perso dieci anni di lavoro a disegnare misure “coerenti” di rischio. Per anni non si è potuto pubblicare niente che non rispettasse le regole (assiomi, nel linguaggio dei matematici) delle misure “coerenti” di rischio. Ogni studente, professore o professionista, nell’accademia o nelle banche, doveva riportare il caveat che la misura di rischio che utilizzava (basata sulla probabilità di rovina) avrebbe potuto non essere “coerente”. E poi le misure coerenti hanno prodotto altra prole (misure convesse, spettrali, robuste). E mentre si impiegava tecnologia e neuroni a cercare il contachilometri “coerente”, macchine truccate sfrecciavano a velocità da gran premio.
Veniamo ora all’effetto che ha un team di meccanici sulle performance di un guidatore. In primo luogo c’è da rilevare che se gli ingegneri vi dicono che un contachilometri coerente deve rilevare la velocità fino a 140 km e non oltre, il rapporto di fiducia tra voi e loro non parte proprio sul piede giusto. E questo ci conduce al secondo punto cruciale del rapporto tra scienza e controllo del rischio. Quanto ti fidi del tuo modello di controllo del rischio, e come deve essere il modello. È un po’ come il sistema dei freni della vostra auto. Deve essere efficiente, ma non vi deve impedire di muovervi.
Abbiamo così introdotto uno dei temi più caldi e di frontiera del dibattito sul risk-management. Si chiama: “rischio di modello”. Anche il vostro sistema di rischio può fare cilecca. Passiamo così nell’officina dei crash test delle misure di rischio, delle prove di stress. Sono gli stress test, una pratica di cui si è discusso molto in questa crisi a proposito delle attività della European Banking Authority (EBA).
Ma anche misurare il rischio delle misure di rischio ha i suoi problemi. Il concetto di stress test è facile, l’applicazione è un problema complesso. Si tratta di capire se le misure di rischio funzionano se capita il peggio. Il problema complesso è dire cosa significa: il peggio. Non è immediato capire “quanto peggio”. Se un medico prima di un’operazione vi dice che il peggio che vi possa capitare è morire, non vi dà un’informazione utile. Dire a un investitore che può perdere tutto quello che ha investito ha lo stesso significato. Inoltre, non è facile disegnare un peggio che sia possibile. È senz’altro vero che il principio cardine di chi disegna macchine di stress test è quello che gli statistici degli anni ’50 chiamavano un gioco contro la “diabolica Miss Nature”, e che Freak Antony degli Skiantos negli anni 70 riprese con l’aforisma: “se la fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo”. Ma anche Miss Nature e Miss Sfiga non possono tutto e devono rispettare delle leggi di natura. Qualcosa di quello che sanno fare ce l’hanno fatto vedere in passato, e abbiamo un guardaroba abbastanza ricco di disastri da far indossare alle nostre misure di rischio. Ma la crisi attuale (e l’ultimo caso è Cipro) testimonia che Miss Nature e Miss Sfiga sfornano campionari nuovi a ogni stagione, e prevedere le tendenze dei grandi stilisti non è cosa da tutti.
Infine, c’è il problema di tarare bene le misure di rischio. E anche qui risposte che possono sembrare banali a un esame più attento non sono scontate. Non c’è dubbio che se le perdite sono sistematicamente maggiori della misura di rischio, la misura funziona male. Ma ricordo nel ’96 un intervento di Bookstaber, global risk manager di Salomon Brothers che diceva che per lui anche una misura di rischio che è sempre sopra le perdite è una misura che funziona male: la ragione è che impedisce agli operatori di assumere rischi. Ancora una volta la metafora calzante è quella dei freni. Se i freni non funzionano bene i piloti, che sono pagati per prendere rischi, rischiano la vita; ma se i freni sono sempre tirati, i piloti non possono essere competitivi in gara.
Per terminare, l’accademia e i quant (la scienza, in una parola) hanno responsabilità simili a quelle della regolamentazione, che abbiamo discusso in interventi precedenti. Primo: hanno equivocato su cosa significhi una buona misura di rischio. Secondo, come nella regolamentazione, determinano da un lato l’incentivo a prendere più rischi, fornendo una sensazione di sicurezza agli operatori; dall’altro, se sono troppo strette, nuocciono alla competitività degli intermediari e impediscono loro di prendere rischi. Come la regolamentazione, anche la scienza dovrà alla fine trovare un equilibrio tra questi due rischi.
*professore di Finanza quantitativa all’Università di Bologna