Il gruppo Rcs, editore del Corriere, attraversa serie difficoltà, messe in luce dalle dimissioni odierne del presidente del patto di sindacato di Rcs, Giampiero Pesenti. L’uscita non è ancora ufficiale, ma fonti ben informate la danno ormai per sicura. Il quadro informativo attuale è davvero carente per un’impresa quotata in Borsa. Nei giorni scorsi Rcs ha pubblicato i risultati al 31 marzo ’13; essi denotano sì perdite importanti per il gruppo, ma anche andamenti dei quotidiani (Corriere e Gazzetta), tali da far ben sperare, al ritorno di un’economia più tonica.
Le difficoltà di Rcs sono legate soprattutto all’investimento nell’editrice spagnola Recoletos, che non ha dato i risultati sperati. Per riequilibrare la struttura patrimoniale è previsto (oltre alla vendita di società, testate e immobili, con tempi e per importi poco prevedibili) un aumento di capitale di almeno 400 milioni, che però non tutti i soci di controllo sono disposti a sottoscrivere, per via delle incerte prospettive economiche di Rcs. Come tutti i media, essa vive una transizione verso il digitale dagli esiti difficilmente prevedibili. Il film però va visto tutto assieme, non solo il finale, e certi passaggi vanno spiegati. Nella primavera del 2007, poco prima dell’inizio della grande crisi finanziaria, Rcs pagò per Recoletos oltre 1000 milioni. Nell’euforia di quella fase, in cui la Spagna era paradigma di virtù mediterranee e tutto pareva potesse solo aumentare di valore, l’azienda fu pagata troppo. È stato un errore, possiamo anche dire un disastro; qualcuno magari lo aveva previsto, ma far la schedina il lunedì mattina è facile.
Per pagare Recoletos in quell’atmosfera euforica Rcs chiese un maxi prestito al sistema bancario: lo sventurato rispose sì. A chi li sollecitava a por mano al portafoglio per coprire l’investimento con soldi propri, i soci di controllo risposero che l’avrebbero fatto semmai dopo. Ora che ci siamo arrivati, al dopo, alcuni di essi nicchiano, altri dicono che non metteranno altri soldi: troppo incerto è il futuro. Il dissenso poggia anche sul fatto che le nuove azioni dovranno, per ragioni tecniche, essere emesse a prezzi molto inferiori a quelli attuali. Di qui una fortissima diluizione della partecipazione dei soci che non sottoscriveranno l’aumento: in parole povere, saranno spazzati via. Per questo alcuni di essi si sentono sotto un ricatto, e meditano di bloccare l’aumento di capitale nell’assemblea straordinaria; in quella sede il voto contrario di almeno un terzo delle azioni (obiettivo alla portata dei dissenzienti) affonderebbe il progetto.
Essi propugnano, pare, un’operazione assai diversa, con un aumento di capitale più contenuto e soprattutto un accordo che abbatta molto il debito di Rcs verso le banche, da “punire” per aver incautamente finanziato l’acquisto spagnolo. Per questo si evoca la richiesta di un “concordato con continuità aziendale”, ottenibile nelle more delle procedure del concordato preventivo. È questa una recente novità legislativa, già utilizzata, con troppa spavalderia, da molte imprese come facile mezzo per ridurre i debiti, ai danni di fornitori e banche: non proprio una soluzione all’altezza del Corriere. Nel frattempo è arrivato un nuovo amministratore delegato, estraneo all’avventura spagnola, che chiede fiducia su un nuovo piano. I soci contrari all’aumento di capitale hanno diritto di utilizzare, anche aggressivamente, tutte le possibilità che una legge troppo lasca concede. Si deve però distinguere fra chi non ebbe voce in capitolo sull’acquisto spagnolo o sul suo finanziamento e i soci di controllo, nessuno dei quali all’epoca si oppose; per loro si tratta di immettere ora i denari che allora si tennero in tasca.
Nessuno potrà costringerli a farlo, ma essi non pretendano di mangiare la torta e di averla ancora intera. Non blocchino dunque l’aumento di capitale, sarà poi affare delle banche garantirne l’esecuzione, in mancanza di un impegno totalitario dei soci sindacati; dovranno assumersi rischi maggiori. Questo sarà forse sarà il modo per riequilibrare un po’ i pesi dell’operazione, fermo un ovvio principio: le perdite gravano sugli azionisti prima che sui creditori.
Valga anche per gli azionisti e il management il richiamo al senso di responsabilità tanto spesso volto ai lavoratori. Non è giusto che i soci vogliano far pagare ad altri le loro proprie responsabilità: sbagliare un investimento non è un reato, ma rifiutarsi di constatare i fatti è peggio, è un grave errore. Esso assoggetterebbe il Corriere e tutti quanti lavorano in Rcs ad un salto nel buio, esponendo anche la reputazione del Paese tutto, che non ne ha certo bisogno, ad un disastro mediatico.