Un’assise deserta, solo una trentina tra piccoli azionisti e avvocati dei soci pesanti, ha dato il via libera dopo 10 ore all’aumento di capitale che consentirà alla società editrice del principale quotidiano italiano di respirare per un po’, in attesa di un editore puro, magari tedesco. Il tutto mentre nel corso della mattinata i giornalisti dei periodici hanno protestato con cartelli e maschere raffiguranti il volto dell’amministratore delegato, Pietro Scott Jovane. Un milione di euro di stipendio per sei mesi di lavoro e un piano criticato proprio da tutti: dipendenti, azionisti e pattisti.
Astenuti i Merloni, che non sottoscriveranno nemmeno l’aumento, e i Benetton, mentre come previsto Giuseppe Rotelli, primo socio non sindacato con il 16,6% delle quote, ha votato a favore. Secondo quanto risulta a Linkiesta, l’imprenditore della sanità lombarda utilizzerà un finanziamento erogato proprio da Intesa per fare la sua parte, che costerà 66 milioni di euro. Critico Sergio Erede(uno dei cira 80 soci de Linkiesta, ndr)rappresentante legale di Diego Della Valle, che ha detto no all’operazione: «Dei 400 milioni di aumento, 150 vanno a rimborso delle banche e altri 250 milioni vengono assorbiti da oneri di ristrutturazione, tasse e perdita di periodo che sarà molto significativa». Con un piano indutriale basato su «un inspiegabile ottimismo, diventato obsoleto».
Qualcuno sostiene siano le banche, azionisti, finanziatori e creditori assieme – in particolare Mediobanca e Intesa Sanpaolo – ad aver perso la partita ridimensionando tasso (da 610 a 470 punti base sull’Euribor) e importo (da 400 a 280 milioni) della ricapitalizzazione. Eppure, se non ci fossero stati degli azionisti con le spalle sufficientemente larghe, Rcs avrebbe portato i libri in tribunale già quattro anni fa. Nel 2007 – anno dell’acquisizione di Recoletos – gli utili si sono assestati a 220 milioni, nel 2008 sono scesi a 38,3, nel 2009 il rosso è stato pari a 129,7 milioni. Nel 2010 ritorna l’utile, a quota 7,2 milioni, ma nel 2011 la perdita sale a 320 milioni, per arrivare a 494,7 milioni nel 2012, per un debito di 846 milioni, di cui 329 verso i fornitori.
Un anziano signore raccoglie i periodici lasciati sulla soglia dai giornalisti manifestanti all’esterno del palazzo di via Balzan (A.V.)
L’approvazione, divenuta scontata negli ultimi giorni, non basta a sbrogliare una matassa attorcigliata e contraddittoria. Esclusa l’ipotesi, a dire il vero piuttosto remota, di un concordato in continuità e scongiurato – eventualità che invece nelle scorse settimane sembrava concretizzarsi – un voto contrario dei due terzi dell’assemblea sull’aumento di capitale, le danze si aprono adesso. Oggi in assemblea Jovane ha sottolineato che il 72% degli investimenti, 160 milioni al 2015, andrà nello sviluppo del digitale. Una direzione nella quale tutto il mondo si sta muovendo, ma che non ha ancora prodotto un unico modello di business in grado di funzionare sul lungo termine. Saranno le idee, oltre ai (pochi) soldi, a dimostrarne l’efficacia. Sempre che, nel frattempo, non ne sopraggiunga un altro.
Il patto di sindacato, nonostante il lock up fino al prossimo marzo imposto dalle banche creditrici, si scioglierà una volta conclusa l’operazione straordinaria, che partirà il prossimo 13 giugno. Fiat e Intesa Sanpaolo hanno mantenuto il pallino della trattativa. Con scopi diversi: la prima per razionalizzare le sue partecipazioni editoriali – nei mesi scorsi si è parlato di un progetto di integrazione con La Stampa – la seconda tanto per mettere in sicurezza i 300 milioni di esposizione verso via Solferino quanto per lo storico attaccamento al giornale. Tant’è che Ca de’ Sass, come è emerso nel corso dell’assemblea, coprirà il 40% del finanziamento da 600 milioni, il 25,5% spetterà a Ubi Banca, il 12,8% a Unicredit, Bpm e Bnp Paribas al 9,58% ciascuno, e infine Mediobanca per il 4,17 per cento. Proprio Piazzetta Cuccia, primo socio del patto che vincola il 58% del capitale, ha lavorato sodo per convincere il club degli scontenti che il patto era il luogo migliore per proteggere i propri interessi.
Trovare vincitori in un processo di ristrutturazione de facto è inutile. Sarebbe però miope non riconoscere la preminenza dell’asse formato da Intesa e Giuseppe Rotelli, l’imprenditore della sanità privata, primo azionista fuori patto con il 16,6%, rappresentato da Anna Strazzera, commercialista la cui famiglia è peraltro azionista attraverso Serfis della Italmobiliare di Gianpietro Pesenti, altro pattista al 7,4% che pur avendo detto sì all’aumento non ha fornito indicazioni sulle modalità della sua partecipazione.
Al contrario, non ci sono dubbi su chi siano i vinti. Durante la mattinata, citando il ricordo di un’assemblea della Banca commerciale italiana, uno dei quindici piccoli azionisti ha detto che l’assemblea di oggi somigliava a un funerale di terza classe, constatando amaro: «Stiamo uccidendo il piccolo risparmio, che è la forza della nazione». Con un flottante ridotto, tanto vale mettere i conti in ordine e, forse, togliersi da quel mercato dei capitali ben rappresentato nell’azionariato che conta davvero.
Twitter: @antoniovanuzzo