Nel gran guazzabuglio mediatico-giudiziario che è ormai diventato l’affaire Ilva, la più grande acciaieria d’Europa a rischio chiusura, bisognerebbe fermarsi un secondo rispolverando il semplice buonsenso.
Che poi è questo: si può pensare tutto e il contrario di tutto, che i Riva siano dei padroni delle ferriere 2.0 da estromettere dal controllo perché hanno inquinato per anni e poco investito; si può pensare che la procura di Taranto sia militarmente accanita, e attacchi leggi dello Stato (il decreto varato dal governo Monti) e sentenze della Corte costituzionale a gogò;
oppure si può pensare che la verità come spesso accade stia nel mezzo e vada trovata una soluzione di sistema che contemperi diritto alla salute, posti di lavoro e ragioni dell’economia. E in questo senso non ci piacciono i magistrati “Unti del Signore” che non considerano nelle proprie decisioni le relative conseguenze sociali ed economiche, come se vivessero isolati in una torre d’avorio.
Ma una cosa è certa: per risanare quello scempio di territorio che è diventato il tarantino, per bonificarlo davvero e una buona volta, sanando ritardi, reati e malcostumi di decenni, bisogna continuare a produrre. Tassativo. Altrimenti non ci sono i soldi per farlo.
Chiudere l’Ilva o metterla in condizioni di non poter generare cassa, sarebbe un suicidio devastante. Non solo perchè priveremmo la nostra industria di un fornitore di base decisivo, non solo per motivi occupazionali, ma perchè ci troveremmo con una Bagnoli al cubo, un cratere dismesso, una discarica a cielo aperto infinitamente peggiore di oggi. Velenosa e inavvicinabile. Vale la pena salvarsi la coscienza così?