Staffetta generazionale: due idee a confronto

Staffetta generazionale: due idee a confronto

Per far fronte al preoccupante problema della disoccupazione giovanile, il governo Letta ha recentemente proposto la cosiddetta “staffetta generazionale”, un concetto basato sull’idea che il lavoro giovanile e quello dei lavoratori vicini all’età della pensione siano in qualche modo sostituti. Secondo questo principio, quindi, incentivare il part-time dei lavoratori anziani per favorire le assunzioni di giovani, oppure rendere leggermente più flessibile l’età di uscita dal mercato del lavoro verso la pensione risolverebbe il problema occupazionale dei giovani senza troppo impattare negativamente sugli anziani.

Questa proposta ha subito scatenato la reazione di molti economisti – ma è davvero una proposta così insensata? Ne discutono due dei fondatori di Link Tank: Nicola Salerno, research fellow del CeRM, e Thomas Manfredi, statistico al dipartimento di analisi del mercato e delle politiche del lavoro dell’Ocse.

Nicola Salerno – La staffetta generazionale potrebbe essere utile in Italia: in un paese con una crescita al lumicino da quasi un ventennio e con tassi di inattività e di disoccupazione alti, soprattutto tra i giovani, il trade-off fra occupazione dei giovani e occupazione degli anziani purtroppo è un dato di fatto. Nel medio-lungo termine si potrà sperare che tale trade-off non sia così diretto e crudo, ma resta il fatto che a questo medio-lungo periodo dobbiamo arrivarci con il capitale umano dei giovani preservato e, anzi, possibilmente accresciuto. Anni di disoccupazione e anni di mobilità precaria rischiano di ridurre definitivamente il potenziale di intere generazioni di giovani, con inevitabili ripercussioni negative anche sul potenziale di crescita dell’economia.

Non solo, la staffetta è utile anche agli anziani. Per molti di loro la fuoriuscita graduale dal mercato del lavoro apre delle possibilità e amplia il ventaglio delle scelte personali. Non dimentichiamo che rimanere al lavoro controvoglia, in attesa dei requisiti di pensionamento, si traduce spesso in una produttività bassa o nulla a fronte di alti costi del lavoro per il datore (privato e pubblico). Inserire flessibilità e diverse possibilità contrattuali può essere quindi un “miglioramento paretiano” (miglioramento della condizione di almeno un individuo senza il peggiorarmento di quella di altri).

Thomas Manfredi – Per dare una valutazione sulla utilità e l’efficacia che potrebbe avere la staffetta generazionale, è essenziale cercare di comprendere fino a che punto le abilità e le competenze dei due gruppi siano di per sé fattori produttivi sostituti o complementari.

La difficoltà principale è come identificare l’effetto di sostituzione data la presenza di variabili non osservabili (come ad esempio il livello di competenze), spesso misurate in via indiretta tramite l’esperienza maturata sul mercato del lavoro, in generale, e quella nell’impresa in particolare. Inoltre le misure di produttività individuale, necessarie per una stima corretta, tendono ad essere misurate tramite l’impatto sulla produttività di impresa della composizione per esperienza della forza lavoro. Tenuti a mente questi problemi metodologici di non poco conto, la letteratura mostra elasticità di sostituzione misurate a livello di impresa leggermente negative.
Questo sembrerebbe dunque dare una qualche base empirica di supporto all’idea della staffetta intergenerazionale, sebbene il valore assoluto delle stime non promette di certo miracoli: siamo ben lontani da una perfetta sostituibilità.

N.S. – Le difficoltà di stima e computazionali segnalate da Thomas sono senz’altro problemi concreti. Proprio per questo lascerei la scelta nelle mani dei diretti interessati. Non si faccia l’errore già compiuto per la contrattazione dei livelli retributivi, da sempre geograficamente molto poco differenziati in Italia rispetto agli altri partner europei (nonostante enormi divari di produttività e di costo della vita). Non si cerchi un’unica soluzione, basata dappertutto sugli stessi parametri medi incorporati direttamente nei testi di legge. È necessario aprire delle possibilità, suggerendo delle vie. Ma alla fine la staffetta deve essere decentrata a livello impresa.

Inoltre, ribadisco che il tema va assolutamente calato nella straordinarietà del momento. Giovani e anziani sono, nell’immediato in Italia, sostituti l’uno dell’altro nell’occupazione. Organizzare bene una staffetta può creare spazio per la nuova generazione, senza estromettere quella vecchia. Una uscita flessibile può realizzare complementarità su base volontaria, sfuggendo quindi alla classificazione dicotomica (o del tutto sostituti o del tutto complementari). Che a giudicare siano i diretti protagonisti: lavoratore giovane, lavoratore anziano, datore di lavoro; è il livello micro che deve stabilire la convenienza e la fattibilità.

T.M. – Passando ad un ottica di equilibrio generale macroeconomico sarebbe importante cercare di comprendere come la crescita possa cambiare la relazione in questione, ovvero se in un’economia che cresce la famosa Lump of labour Fallacy – principio secondo il quale la quota di lavoro è fissa e possa essere in qualche modo distribuita a piacere – sia supportata dall’evidenza.

Tenendo in considerazione da un lato, gli eventuali effetti su altre imprese e settori, dall’altro il tasso di crescita dell’economia, sembra che le stime dell’elasticità passino in territorio positivo, o al massimo nullo. I tassi di impiego e partecipazione al lavoro delle persone anziane sembrano essere positivamente correlati con i tassi di impiego dei giovani nei paesi Ocse. Controllando per gli effetti che concausano evidentemente entrambe le variabili, (c.d. endogeneità, ovvero co-determinate da un insieme di fattori quali istituzioni, regole, e condizioni economiche generali) questa correlazione tende a sparire, ma mai a diventare significativamente negativa. Serve dunque crescita economica per produrre effetti positivi per tutti i gruppi demografici.

N.S. – Stiamo crescendo? Siamo di fronte un enorme problema di crescita, di cui quello occupazionale è “solo” un problema che ne consegue. Se i giovani restano ai margini, depauperiamo il potenziale di crescita, creiamo condizioni di dipendenza dagli istituti assistenziali, rinunciamo a capitale umano mediamente più qualificato e a energie nuove.

Come già detto, dinamiche economiche favorevoli stimolano e sostengono l’occupazione a tutte le età, smussando o addirittura eliminando il trade-off giovani-anziani. Ma attenzione: stime fatte su serie storiche degli ultimi venti, trenta, magari anche quaranta, anni sono da prendere con le pinze. Questa crisi, la peggiore dal dopoguerra, ha cambiato lo scenario economico. Molti dei paesi occidentali, fra cui l’Italia, si trovano di fronte scenari inesplorati, in cui condizioni straordinarie del mercato del lavoro interagiscono con situazioni straordinarie del sistema di welfare, delle finanze pubbliche, delle istituzioni nazionali e sovranazionali… il tutto sullo sfondo di un processo inesorabile di invecchiamento della popolazione.

T.M. – L’approccio di Nicola è legato alla giusta osservazione che in una economia che si contrae potremmo forse dare più peso a considerazioni redistributive, cercando perciò di “passare in staffetta” il lavoro dei padri ai figli. Tuttavia, questo approccio rischia di utilizzare uno strumento costoso e di difficile implementazione (in termini tecnici bisognerebbe prevedere un cosiddetto double stock marginal subsidy ovvero un doppio incentivo da un lato al part-time, dall’altro alla creazione netta di impiego per i giovani) per dei risultati di cui non siamo affatto certi.
Lo strumento è costoso soprattutto in termini di fiscalizzazione dei contributi previdenziali, sia per gli anziani in part-time che per i giovani – nel caso in cui lo strumento facesse leva sui contributi pensionistici per abbassare il costo del lavoro.

Se a questo aggiungiamo che si sta andando incontro a un sistema più “lasco” in termini di età pensionabile – certo con assegni penalizzati (anche se evidenze passate mostrano che i benefici nascosti sono spesso sottostimati, rendendo in pratica nullo l’effetto disincentivante della penalità) – credo che l’impianto complessivo della staffetta generazionale preveda benefici dubbi e costi certi. Ecco perché tendo a scartarne l’uso per destinare le risorse disponibili per altri interventi più efficaci.

N.S. – Non ci sono solo ragioni redistributive dietro l’idea di staffetta. Ci sono anche ragioni di efficienza, statica (oggi) e dinamica (il capitale umano e la produttività che ci ritroveremo domani).
I costi della staffetta dipendono da come la si organizza. Ad esempio, personalmente, escluderei totalmente contributi pensionistici fiscalizzati; al limite si può prevedere un alleggerimento contributivo per gli anziani che optano per un’uscita flessibile, ma mantenendo fisso il principio che variazioni contributive si riverberano in variazioni dei benefici pensionistici.

Fra l’altro, non sono d’accordo sull’aggettivo “lasco” attribuito al pensionamento flessibile: tutto dipende dalle correzioni applicate agli assegni pensionistici. Se sono rigorose nell’instaurare neutralità attuariale, il pensionamento flessibile non ha nulla a che vedere con le uscite premature di anzianità che negli anni ‘70 e ‘80 hanno creato i presupposti per gli squilibri nelle pensioni e nel welfare che oggi tentiamo di risolvere.
Se si lega la staffetta alla riforma delle pensioni e alla riforma della contrattazione retributiva (verso un decentramento più spinto), il bilancio costi-benefici può cambiare completamente.

Questa questione è uno dei tanti paradossi che stiamo vivendo: infatti, se da un lato abbiamo bisogno di prolungare le carriere lavorative per consolidare i conti delle pensioni e del welfare, è anche necessario accorciarle per evitare blocchi generazionali che lascino in stand-by le nuove generazioni. La staffetta, l’uscita graduale dal lavoro con part-time o contratti a termine, e il pensionamento flessibile, sono tre leve di azione che, coordinate, potrebbero riuscire a risolvere questo paradosso.

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