Un combattente tenace e impulsivo, oscillante fra il richiamo orgoglioso alla sua comunità ideologica e la volontà di andare oltre quei confini. Pugliese fino al midollo – è nato a Bari il 3 marzo 1958 – Gianni Alemanno vive la sua infanzia seguendo gli spostamenti del padre generale dell’esercito, e si trasferisce con la famiglia a Roma nel 1970, nel quartiere benestante e conservatore dei Parioli. Frequenta il liceo scientifico “Augusto Righi”, diventa giornalista pubblicista e si laurea in Ingegneria per l’ambiente e il territorio all’Università di Perugia.
La sua passione, però, è la militanza politica. A destra. A 13 anni, Gianni entra nel Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano, e arriva a ricoprire il ruolo di segretario provinciale romano. Nella tragica e turbolenta stagione a cavallo tra anni Settanta anni Ottanta, aderisce alle tesi e all’iniziativa di Pino Rauti, storico antagonista di Giorgio Almirante che puntava a rendere il partito protagonista del campo conservatore superando la conventio ad excludendum dell’arco costituzionale contro gli eredi del neo-fascismo di Salò.
Fortemente ostile a una linea considerata trasformista, rinunciataria e arrendevole verso “le formazioni borghesi e filo-atlantiche”, il fondatore di “Ordine nuovo” tendeva al recupero dei capisaldi ideologici della Repubblica sociale in un’ottica comunitaria e nazionale, avversa alla globalizzazione cosmopolita di stampo anglo-americano. Gianni crea una corrente combattiva all’interno del Fronte, trovando sintonia con personaggi come Flavia Perina, Paola Frassinetti e Fabio Granata. Tutti compatti nell’aperta contrapposizione al gruppo fedele ad Almirante, guidato dal 1977 al 1987 da Gianfranco Fini.
Nel decennio del trionfo della democrazia politica, dell’economia di mercato e del modello di vita occidentale, Alemanno viene arrestato per tre volte, venendo sempre prosciolto. La prima volta a Roma, nel novembre 1981, con l’accusa di aver partecipato con altri quattro militanti all’aggressione di uno studente di 23 anni, Dario D’Andrea. La seconda per aver lanciato una molotov contro l’ambasciata dell’Unione Sovietica: Gianni trascorre 8 mesi in carcere prima di venire liberato per non aver commesso il fatto. A quella stagione risale una tragedia per lui indelebile. La sera del 2 febbraio 1983 il suo amico Paolo Di Nella, giovane aderente del Fronte della gioventù dalla spiccata sensibilità ecologista, viene colpito alla testa mentre affigge alcuni manifesti nel quartiere Trieste-Salario per promuovere l’acquisizione pubblica di una villa del 1700 per trasformarla in centro socio-culturale. Morirà sette giorni dopo. Gli aggressori, appartenenti all’estrema sinistra extra-parlamentare, restano tuttora senza nome.
La terza disavventura giudiziaria è la più densa di implicazioni politico-ideologiche. Il 29 maggio 1989, nel corso della visita del presidente degli Stati Uniti George Bush al cimitero militare americano di Nettuno, organizza una contro-manifestazione a favore dei combattenti della Repubblica sociale «come monito per chi facilmente dimentica il nostro passato e offende la memoria di migliaia di caduti che si sono battuti per la dignità della Patria».
Nel 1988, intanto, ha completato la sua ascesa ai vertici dell’organizzazione giovanile del partito, diventandone leader al posto di Fini. Conserva la carica fino al 1991, in coerenza con il proprio retroterra ideologico sociale e nazionalista. Una filosofia che proietta nelle dinamiche interne al partito della destra italiana, schierandosi apertamente con Rauti impegnato nella conquista della segreteria. Obiettivo raggiunto nel corso dell’infuocato congresso del 1990, coronato due anni più tardi dal matrimonio con Isabella, figlia del teorico dello “sfondamento a sinistra” e poi della “Cosa nera”. Ma quel progetto fallisce e nel ’91 il delfino di Almirante torna alla direzione del Msi. Gianni accetta la nuova leadership e vive le tappe dell’uscita della destra italiana dal ghetto politico-istituzionale.
Un percorso di emancipazione che culmina nel Congresso di Fiuggi della primavera del 1995. Alemanno aderisce alla svolta liberal-conservatrice di Alleanza nazionale, provocando una rottura con Rauti, che abbandona la nuova formazione e dà vita alla Fiamma tricolore.
Nella seconda metà degli anni Novanta costruisce un bacino capillare di consenso nell’elettorato centro-meridionale del pubblico impiego, dei commercianti e dei piccoli imprenditori agricoli. Ceti che si riveleranno determinanti per le sue fortune politiche. Un’iniziativa resa possibile anche dalla creazione, con Francesco Storace, della corrente interna “Destra sociale”, dell’associazione culturale “Area”, del gruppo ambientalista “Fare Verde”, dell’organizzazione non governativa “Movimento comunità”, e della “Fondazione Nuova Italia”. Realtà che costituiscono una solida postazione all’interno di An e un trampolino di lancio per la sua proiezione sulla scena pubblica nazionale.
All’indomani della travolgente vittoria della Casa delle Libertà nel maggio 2001, Alemanno viene nominato responsabile per le politiche agricole nel governo Berlusconi. È in questa veste che rivela un’indubbia originalità di pensiero. Protegge la produzione nazionale e le posizioni acquisite dai coltivatori italiani rispetto alla liberalizzazione dei mercati agricoli, e presenta una proposta di legge per limitare la coesistenza di colture geneticamente modificate e tradizionali. Il progetto, però, viene ritirato dopo le pressioni dell’ambasciatore Usa sul nostro esecutivo.
Alemanno è, insomma, artefice di una linea spregiudicata che abbraccia la Coldiretti di matrice democratico-cristiana e lo Slow Food di Carlo Petrini, al termine di un vertice del Wto stringe la mano all’honduregno Rafael Alegría, portavoce mondiale di “Via Campesina” e leader della contestazione no-global. Definito da Massimo D’Alema «il miglior ministro del governo Berlusconi», Gianni acquista rilievo come voce critica nei confronti dell’operato del Cavaliere. Fedele all’antica prospettiva “comunitaria e sociale” radicalmente ostile alle riforme liberali-liberiste, si mostra tiepido sui tentativi di innovare lo Statuto dei lavoratori, osteggia la riduzione delle tasse per i ceti medio-alti, si oppone alla dichiarazione di fallimento per Alitalia, difende gli interessi dei dipendenti pubblici.
Apprezzato dalla politica e dalla cultura progressista che sembra avere archiviato il suo passato militante, diventa ospite quasi fisso a Ballarò, riscuotendo l’elogio del cantautore Antonello Venditti: «Alemanno da ministro dell’agricoltura era più a sinistra di molti dirigenti del centrosinistra».
Forte di un consenso così ampio e significativo, tenta di realizzare un sogno coltivato fin da ragazzo. E si candida a sindaco della Capitale in alternativa a Walter Veltroni. Fallisce la prova ma costruisce una strategia abile per rapportarsi alla giunta di centro-sinistra. Conquistato il 75 per cento della federazione romana di Alleanza nazionale, evita lo scontro frontale con il Campidoglio, privilegiando un’opposizione di dialogo e confronto sui programmi. Un ruolo di mediazione che tenta senza frutto di esercitare nella rottura traumatica tra Fini e Berlusconi.
Rimasto con convinzione nelle file del Popolo della Libertà, vive da protagonista la primavera del 2008. E costruisce in quelle settimane il suo capolavoro politico. Più che mai intenzionato a realizzare l’aspirazione di governare Roma, punta su idee-forza semplici e di grande presa emotiva in una metropoli sconvolta da una violenza crescente: garantire la sicurezza delle persone e combattere il degrado cittadino.
Formula coniugata con un profilo aperto all’integrazione e al dialogo etnico-religioso. Pochi giorni prima del ballottaggio con Francesco Rutelli rispetto a cui parte in svantaggio, visita la Moschea di Roma – primo incontro nella storia con un candidato al Campidoglio – in cui sottolinea il suo impegno per il rispetto reciproco delle identità e propone trasporti pubblici più efficienti per il centro islamico e corsi di italiano all’interno del luogo di culto, «poiché la lingua è la base dell’integrazione». Grazie a una campagna condotta con umiltà soprattutto nelle zone popolari e periferiche, trionfa con il 53,6 per cento dei voti, riuscendo a strappare 55mila consensi che al primo turno si erano riversati su Rutelli.
È la prima volta per un ex missino, in grado di vincere anche nei quartieri di storica impronta anti-fascista. Consapevole della natura di un simile risultato, Alemanno dichiara di voler essere il sindaco di tutti i romani, senza pregiudizi e divisioni. Ma il profilo bipartisan della sua affermazione trova nelle stesse ore le prime smentite. Nelle strade della Capitale si riversano centinaia di taxi che festeggiano con i loro clacson la vittoria del loro paladino contro le liberalizzazioni promosse dal secondo governo Prodi e da Pierluigi Bersani. E in diversi luoghi della città, oltre che da alcune finestre del Campidoglio, decine di manifestanti esultano con saluti romani ed esibizione di croci celtiche. Presagio delle ombre che nel corso degli anni si addenseranno sull’operato del nuovo sindaco.
Le sue iniziative suscitano aspre polemiche. Dal rifiuto di realizzare il parcheggio sotterraneo multi-piano nel colle del Pincio all’intenzione di smantellare la teca dell’Ara Pacis progettata dall’architetto newyorkese Richard Meier. Dalla scelta di puntare su una Festa del cinema «con meno star americane e più spazio ai film italiani» alla volontà di «contenere il Gay Pride, perché il problema non è omosessuale sì omosessuale no, bensì esibizionismo sessuale sì esibizionismo sessuale no». Fino alla raffica di ordinanze di divieto contro i lavavetri, l’uso dei borsoni, i writer, i bivacchi, le prostitute che adescano i clienti per le quali viene ipotizzata una multa fino a 500 euro.
Per tener fede al suo profilo di apertura, nel luglio 2008 il primo cittadino invita l’ex capo del governo Giuliano Amato a guidare la Commissione per lo sviluppo di Roma Capitale, laboratorio d’idee bipartisan per ridisegnare il volto della Capitale. Il giurista rinuncia a causa del giudizio espresmovimento che non fu il male assoluto a differenza delle leggi razziali». Le reazioni provenienti soprattutto dalla comunità ebraica di Roma sono durissime, «perché quell’infamia fu emanata dal regime fascista». Il 17 novembre del 2008, nel settantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali, Alemanno dà il via libera al progetto di un Museo della Shoah che dovrà sorgere nel parco di Villa Torlonia, già residenza di Benito Mussolini.
Ma è il tema della sicurezza a focalizzare la sua attenzione. All’inizio del mandato incontra i rappresentanti dei rom italiani, fermamente intenzionato ad affrontare il degrado riscontrato in molti campi nomadi attraverso un censimento delle comunità, a chiudere quelli non autorizzati, a nominare il prefetto di Roma commissario straordinario per l’immigrazione. Richiede al responsabile del Viminale Roberto Maroni trecento militari per presidiare i quartieri e le stazioni periferiche, e riesce a dotare di armi da fuoco la Polizia municipale. Un pacchetto di misure di 24 milioni di euro, culminanti nella creazione di un ufficio extra-dipartimentale del Campidoglio per la sicurezza affidato all’ex direttore del Sisde Mario Mori.
Altro fronte delicato su cui si trova ad operare con difficoltà è la gestione delle emergenze maltempo. Nel 2011 i violenti nubifragi e gli allagamenti, che provocano la morte del trentaduenne Ernest Sarang, annegato in un seminterrato abusivo di una zona periferica. Nel febbraio 2012 un’intensa nevicata di tre giorni che paralizza l’intera città. Accusato di non aver predisposto un piano di intervento adeguato, Alemanno si difende imputando alla Protezione civile la pubblicazione di bollettini «che parlavano di poche spruzzate di neve». Evidenzia la natura eccezionale del fenomeno per la Città Eterna («Gli stessi alberi di Roma non sono abituati alla neve, è un fatto geografico e botanico») e chiede ai cittadini di rimanere a casa, «tranne i più valorosi che volessero dare una mano con le pale». Si fa ritrarre più volte davanti ai militari-spalatori in tutti i programmi televisivi possibili.
Se la sua reazione suscita sui social network un’ondata di ironie e sarcasmo, più efficace è l’offensiva promossa sui conti pubblici della Capitale. Risale al giugno del 2008 la scoperta di un debito di oltre 8 miliardi di euro – Il Sole 24 Ore calcolò che la cifra poteva arrivare facilmente ai 10 miliardi – lasciato dalla giunta Veltroni nelle casse del Campidoglio. Per evitare il dissesto finanziario, il governo nazionale emette un assegno di 500 milioni volti a coprire i conti scoperti, e nomina lo stesso Alemanno commissario per il monitoraggio del deficit capitolino. Aver «salvato il bilancio del Comune dal baratro promuovendo il suo risanamento» è la rivendicazione principale ribadita dal sindaco nella campagna in corso. Accanto a risultati come l’esenzione del pagamento della tassa sui rifiuti per 90mila famiglie e l’approvazione del “quoziente familiare” per la tassazione locale, oltre al milione di euro stanziato per le start-up dei giovani. Cifre che tuttavia stridono con il rapporto pubblicato dal Sole nel gennaio 2013, secondo cui il PIL pro capite medio dei romani è sceso dai 34mila euro del 2007 ai 29.400 del 2011: una flessione del 13,4 per cento.
Gli scenari più allarmanti e inquietanti per l’operato della Giunta Alemanno coinvolgono il versante della trasparenza e della moralità della pubblica amministrazione. Verso la fine del 2010 viene alla luce una vasta rete di assunzioni di decine di persone vicine alla Giunta nelle aziende municipalizzate del Comune tramite chiamata diretta. La scoperta di un fenomeno dalle dimensioni inimmaginabili porta la Procura di Roma ad aprire diversi filoni di indagine. Al centro dei quali sono le 850 assunzioni sospette compiute nell’Atac, la società pubblica del trasporto municipale all’epoca guidata da Adalberto Bertucci, e le 841 chiamate dirette che sarebbero state pilotate da Franco Panzironi, fedelissimo di Alemanno ed ex amministratore delegato dell’Ama – l’azienda incaricata della pulizia e del decoro urbano – accusato di abuso di ufficio con altre sette persone. Fino agli appalti sospetti e alle presunte tangenti di cui sarebbe responsabile l’ex amministratore delegato di Eur Spa Riccardo Mancini, amico storico di Gianni nonché ex esponente di Avanguardia nazionale, per l’acquisto di filobus dalla Breda Menarinibus, azienda del gruppo Finmeccanica.
A costituire il comune denominatore delle realtà emerse nel corso delle inchieste giudiziarie è un fil rouge, o meglio un fil noir, che tiene legati i suoi protagonisti. Perché amministratori, responsabili e consulenti designati dal primo cittadino sono tutti uniti da un’antica, orgogliosa, mai rinnegata militanza nell’estrema destra. Come già delineato su questo giornale, «il sindaco di Roma non ha dimenticato nessuno dei suoi vecchi amici camerati, neanche quelli condannati o finiti in galera per pestaggi o atti terroristici durante gli anni di piombo. E ha riservato loro cariche politiche, consulenze e posti di tutto rispetto nelle società controllate dal Comune».
Tra le figure più rappresentative spiccano Francesco Bianco, già militante dei Nuclei armati rivoluzionari e poi aderente a Forza Nuova, assunto all’Atac e sospeso per insulti anti-semiti su Facebook; Stefano Andrini, amministratore delegato di una società partecipata dall’Ama, condannato a tre anni di reclusione per tentato omicidio dopo un pestaggio con diversi naziskin che ridusse in fin di vita un ragazzo di sinistra; Mario Vattani, console a Osaka e consigliere diplomatico di Alemanno, leader di bande musicali “fascio-rock”; Riccardo Mancini, condannato nel 1998 a un anno e nove mesi per violazione della legge sulle armi; Gianluca Ponzio, capo del Servizio relazioni industriali di Atac, già membro di Terza posizione arrestato più volte negli anni Ottanta per rapina e possesso di armi; Antonio Lucarelli, capo segreteria del sindaco ed ex portavoce di Forza nuova; Mirko Giannotta, capo ufficio del decoro urbano, condannato a un anno e otto mesi per rapine a banche e gioiellerie nonché figlio di Carlo, storico presidente della sezione Acca Larentia del Movimento sociale, una delle più estreme della destra capitolina; Loris Facchinetti, missino passato a Ordine nuovo ed ex leader di Europa e civiltà, delegato del sindaco per il Mediterraneo ed esperto di politiche internazionali della fondazione Nuova Italia; Maurizio Lattarulo, già militante dei Nar e affiliato alla Banda della Magliana, consulente esterno dell’Assessorato per le politiche sociali.
Un panorama dai contorni inequivocabili, che non sembra però rappresentare un serio ostacolo per il tentativo di rimonta in cui si è gettato anima e corpo Gianni Alemanno. Ma l’appassionato di alpinismo tanto abituato al sacrificio dovrà ricorrere alle sue risorse più profonde: la fede religiosa di un cattolico convinto che ama praticare la meditazione zen. Filosofia a cui peraltro è legata la sua passione e dedizione per la causa del Tibet e le iniziative del Dalai Lama, che il 9 febbraio del 2009 ha ricevuto proprio da Alemanno la cittadinanza onoraria di Roma.