Basta involtini primavera, arriva la vera cucina cinese

La rivoluzione cinese

In patria e all’estero. Nulla resterà incompiuto nei piani del Governo cinese che ha deciso di rifarsi il look partendo dalla tavola. E se il presidente Xi Jinping lancia l’ operazione “piatti puliti” in casa (guerra agli sprechi e ai banchetti dei funzionari, icona della corruzione), il premier Li Keqiang è maggiormente preoccupato dell’immagine esterna.

Da qui il piano “tovaglia inamidata”: lotta alla sporcizia e ai menù costruiti su liofilizzati e precotti esportati dallo Zheijang. L’ideologia di base? L’immagine di un popolo dipende da ciò che mette nel piatto degli altri e quindi è insopportabile che India e Giappone siano più considerate tra i gourmet occidentali e statunitensi. Per farlo, bisogna ribaltare anche la proposta tradizionale: tanto per capirci semaforo rosso a involtini primavera, riso fritto, pollo alla soia e ravioli al vapore mentre deve tornare in auge l’antica gastronomia imperiale, quella della carpa all’anice stellato, dei nidi di rondine con la glassa al tè verde e dell’anatra alla pechinese arrostita nel forno a legna, da spolverare con kren e vaniglia.

Un po’ come se il premier Letta – noto calciofilo e grande milanista – imponesse spiritualmente che tutte le squadre italiane in Champions ed Europa League scendessero in campo all’estero con filosofia di Sacchi: vincere e convincere. Impresa ardua ma l’impegno è serio come prova l’avvio della serie di maxi-finanziamenti di Stato che serviranno a smantellare migliaia di vecchi ristoranti cinesi aperti al di là della Grande Muraglia: saranno ristrutturati, ad arredati come impone la moda e soprattutto dotati di cuochi capaci di finire sulla Guida Michelin. «Per me è un fatto epocale e molto positivo – commenta Wang Pei, titolare di Bon Wei che per molti è il miglior ristorante cinese “classico” a Milano – soprattutto perché aiuta a risolvere il problema degli chef: Pechino impedisce sostanzialmente a quelli veramente bravi di venire in Europa e quindi il livello medio all’estero, per quanto migliorato rispetto a dieci anni fa, non rispecchia le potenzialità di una cucina eccezionale per qualità e numero di piatti. Noi abbiamo puntato su quella storica con leggere modifiche, apprezzate dai clienti».

Milano è il laboratorio «italiano» della cucina cinese ed etnica in generale. Negli anni ’80, si contavano in città circa 400 locali ma quasi tutti impostati esclusivamente sul favorevole rapporto quantità-prezzo, talvolta ai limiti dell’assurdo: ambienti tristi, gestione familiare, cuochi «strappati» realmente alla terra, ingredienti di seconda e terza scelta. «Inutile nasconderlo, i ristoranti aperti dalla generazione precedente erano improvvisati e hanno fatto seri danni alla nostra immagine – spiega Hu Hai Bin, che gestisce numerosi locali etnici di successo come il Mi-Cucina di Confine – ma quella attuale, arrivata giovanissima in Italia o nata qui, sta facendo un gran bel lavoro anticipando quanto stanno discutendo in Cina. È sostanzialmente una questione di mentalità e di poter contare su bravi professionisti in cucina. Poi si può discutere su cosa mettere in tavola: al Mi ci piace «giocare» su una base cinese, unendo sapori orientali e prodotti italiani. Altri la vedranno diversamente: del resto, non esiste una cucina cinese semmai tante cucine con piatti che non hanno nulla in comune tra loro».

Alvin Leung

Non è un caso che la Guida Michelin per ora non abbia affrontato il problema –colossale – di recensire il meglio della ristorazione cinese. Forse tra qualche anno si valuteranno i grandi centri ma per ora ci si limita a seguire Hong Kong e Macao, “piazze” ricche e affollate con ristoranti importanti. Per la cronaca, la prima ha ben 61 stellati in gran parte classificati come “cantonesi” (uno è addirittura tre stelle, Lung King Heen) e la seconda ne vanta sette con un solo tre stelle, gestito però dal francese Joel Robuchon che ne ha un altro a Hong Kong. 

Il genietto del gruppo è senza dubbio Alvin Leung – look tamarrissimo nonostante la laurea in ingegneria a Toronto – che ha aperto nell’ex-colonia inglese Bo Innovation. Si è guadagnato due stelle Michelin in virtù di quella che lui definisce x-treme chinese cuisine dove i piatti della tradizione vengono «smontati» e «rimontati», servendosi di quanto appreso nei suoi passaggi tra le cucine di Ferran Adrià, Heston Blumenthal e il già citato Robuchon. Ma di Leung per ora se ne conosce uno, i suoi colleghi di Pechino e Shanghai – per quanto bravissimi – hanno spesso l’handicap di guidare locali anche con mille posti e non ristoranti gourmet, da sempre i più considerati dalle guide internazionali.

«Ci arriveranno, magari prima di quanto pensano anche loro – dice Marco Liu, giovane titolare del Ba-Asian Mood e ideale rappresentante di quella generazione di cinesi nati in Italia che sta cambiando il movimento – i cuochi cinesi, se ben assistiti e gestiti, hanno talento da vendere e grande creatività. Penso che la mossa del Governo sia stata saggia, c’è bisogno di cambiare l’immagine e aiutare chi sta rendendo più appetibile e raffinata la nostra cucina. Con questo non amo gli integralismi, qualsiasi piatto – che siano gli involtini primavera o l’anatra alla pechinese – va proposto nel modo ideale, servito come si deve e senza avere paura di perfezionarlo con nuove tecniche o ingredienti diversi. Per me, la cucina è prendere spunto dal meglio e magari unirlo a quello che ho già in casa».

Giustissimo. Anche perché – diciamo la verità – codificare la cucina cinese è come tagliare il brodo: secondo China Daily ci sono circa 40.000 ricette tradizionali. In effetti, un antico proverbio del Drago dice «se un cinese mangia ogni giorno un piatto diverso per tutta la sua vita, non conoscerà comunque tutta la sua cucina». Fate due conti, accidenti, e bisognerebbe vivere quasi 110 anni.