Brescia: dove c’era l’industria i conti non tornano più

La sfida tra i due ex democristiani Paroli (Pdl) e Del Bono (Pd)

«Brescia ha vocazione industriale, Milano finanziaria». Con questo ragionamento la sponda bresciana dell’utility A2a, controllata dai due Comuni lombardi ciascuno con una quota del 27,45%, ha tentato nei mesi scorsi di aprire la strada al consolidamento dei servizi ambientali dell’ex Aem, tornata all’utile per 260 milioni nel 2012. Complice il taglio dei dividendi, nelle casse della Leonessa sono però entrati solo 11 milioni. Non è la pioggia di denaro a cui la città era abituata, ma è sicuramente meglio della dieta dell’anno scorso. La boccata d’ossigeno che non basta a un territorio dove dall’inizio della crisi la produzione industriale è calata del 25%, il tasso di disoccupazione è salito al 6,8% e sono stati persi 50mila posti di lavoro su un’area metropolitana dove vivono 520mila abitanti.

Per quanto Palazzo Broletto abbia chiuso l’anno scorso in deficit di 20,7 milioni, il rispetto dei paletti del patto di stabilità ha consentito al sindaco uscente, Adriano Paroli, di sbloccare 23 milioni principalmente per pagare gli arretrati ai fornitori. I residui passivi (debiti da saldare, ndr) del 2012 sono 4 milioni, ma il totale di competenza sale a 76 milioni. Un contributo non indifferente è arrivato dall’Imu by Mario Monti – 75,8 milioni, 400 euro per abitante – e dall’addizionale Irpef, altri 20 milioni. Un contraltare allo stralcio dei residui attivi (entrate accertate ma non riscosse, ndr) riferiti agli anni passati per 31,5 milioni.

Tuttavia, l’Imu è un’arma a doppio taglio che contribuisce a frenare un mercato immobiliare già in profonda crisi: dei 132,3 milioni di entrate da alienazioni immobiliari il Comune ne ha infatti racimolati soltanto 49,7 milioni (-62%). Sul fronte spese, lo scostamento maggiore (+30%) rispetto alle previsioni si riferisce al rimborso dei prestiti, costati 8 milioni rispetto ai 6 inizialmente preventivati. La grande incognita è però la fiammante metropolitana, costata un miliardo di euro. Il contratto di servizio siglato con la Regione Lombardia prevede 4 milioni di trasferimenti in più (da 14 a 18 milioni) nel biennio 2013/2014, ma non è chiaro se l’accoglienza finora buona dei cittadini rimarrà tale a lungo, una volta svanito l’effetto novità. Non a caso nel previsionale non c’è nessun riferimento agli introiti da bigliettaggio. 

Dietro al trasferimento della sede di A2a Ambiente a Brescia, dal primo luglio prossimo – frutto di un intenso diplomatico da parte del presidente del consiglio di gestione Graziano Tarantini tanto per compattare i vertici della politica bresciana quanto per convincere i rappresentanti milanesi della società – c’è un disegno preciso: da un lato renderne più digeribile il debito monstre (4,2 miliardi nel primo trimestre), dall’altro procedere spediti verso un’accorpamento con Aprica e Amsa in un’unica divisione gestita dalla Leonessa. Un progetto che Tarantini voleva affidare a Paolo Rossetti, la cui recente nomina a presidente dell’Amsa non è stata gradita dal Comune di Milano.

Tramontato il progetto – spinto dall’ex ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera e appoggiato da Fassino e Tabacci – di creare una superutility del Nord sposando A2a con Hera e poi Iren, ora l’obiettivo per Brescia diventa razionalizzare il business in un settore, quello della raccolta rifiuti e dei servizi ambientali, che si muove assieme al ciclo economico. Ovvero, con il Pil in calo dell’1,5% (Ocse), a passo di gambero.

Il riassetto di A2a e la nomina di Marco Bonometti, numero uno delle Officine Meccaniche Rezzatesi, ai vertici dell’Aib, l’associazione degli industriali bresciani, sono due indizi per capire su quali direttrici si muoverà il prossimo sindaco che uscirà dal ballottaggio tra l’uscente Adriano Paroli (Pdl) ed Emilio Del Bono (Pd). Entrambi ex democristiani, entrambi consiglieri comunali tre lustri fa. D’altronde siamo in tempi di larghe intese. La razionalizzazione della sponda più funzionale all’industria della mega utility non è solo propedeutica a mettere un po’ d’ordine nella pletora delle 107 partecipate finite nel mirino della Corte dei Conti, ma a dimostrare l’autonomia della città da Milano, che vede con un misto di invidia e soggezione.

Tra gli industriali la nomina di Bonometti è stata salutata con la giusta speranza. Il motivo sta in quattro lettere: Fiat. La sua Omr è tra i pochi fornitori del Lingotto che fanno – e non subiscono – il prezzo. Con l’indotto meccanico che soffre tremendamente la concorrenza di Polonia e Repubblica Ceca su clienti come Volkswagen, e i contratti di solidarietà che proseguono nello stabilimento Iveco di via Volturno, l’attesa è facilmente spiegabile. Tra i grandi sponsor di Bonometti, peraltro, c’è Giuseppe Lucchini, erede dell’omonima famiglia attiva nell’industria siderurgica, membro del patto di sindacato di Rcs, società editrice del Corriere della Sera e consigliere di sorveglianza di Ubi Banca.

Bonometti è anche presidente di Banca Santa Giulia, istituto di credito con sede a Chiari fondato nel 2008 con un gruppo di imprenditori. Sul sito c’è scritto: «In Banca Santa Giulia, insieme al conto corrente, all’investimento, al fido, o all’home banking, troverete anche qualcuno che vi dà ascolto». Una massima che torna utile a quanti sono preoccupati della piega verso Bergamo che ha preso Ubi, con la vittoria della lista capitanata da Andrea Moltrasio all’assemblea dello scorso aprile. Gli imprenditori hanno bisogno di carburante finanziario, e una banca locale sicuramente ha un orecchio più attento e un occhio più vigile di un grande gruppo con un budget eterodiretto da rispettare. Così a inizio 2013 ha aperto il primo sportello dell’Istituto Lombardo Veneto, guidato dall’economista Franco Spinelli. Il vicepresidente, Aldo Bonomi, dovrebbe essere una garanzia del riguardo nei confronti della piccola impresa. Entrambe si pongono a metà strada tra i colossi nazionali e le banche di credito cooperativo. Tra le quali spicca la Bcc del Garda di Alessandro Azzi, attuale presidente di Federcasse multato da Bankitalia nelle scorse settimane per carenze del’istituto cooperativo.

Banca, impresa, politica, chiesa. Un groviglio armonioso di normale amministrazione per la città di Mino Martinazzoli, teorico del «cuore a sinistra e portafoglio a destra» ricordato con «struggente nostalgia» da un altro bresciano influente, il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli. Tant’è che si risponde al credit crunch aprendo nuove banche, staccando poi il conseguente dividendo d’influenza. E il vescovo Luciano Monari – originario di Sassuolo e vicino a Comunione e Liberazione – in un intervento alla Camera del lavoro per i 120 anni dalla fondazione della Cgil, cita le parole dell’economista bresciano Marco Vitale: «Se dobbiamo, come dobbiamo, dare vita a un nuovo patto sociale, per una più equa e quindi anche più efficace distribuzione della ricchezza, dei redditi, del lavoro. Se dobbiamo, come dobbiamo, ridare speranza e prospettiva ai giovani e ai disperati della terra che premono alle nostre frontiere, abbiamo bisogno di una grande carica di solidarietà; non assistenziale ma produttiva, efficiente, vera». Una ricetta che se non sarà riempita di nuove proposte politiche difficilmente supererà la prova della crisi.

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