“Così porto la pizza Spontini a Londra e in Giappone”

Parla Massimo Innocenti che guida una holding ormai internazionale

Acqua di Milano (nel senso che sgorga dal rubinetto), farina di grano tenero macinato 00, polpa di pomodoro (di provenienza emiliana e non campana, questo sì che fa notizia), mozzarella di latte vaccino, acciughe e origano. E un filo d’olio (di soia, non extravergine) versato nella teglia, rigorosamente in alluminio martellato. Con questa ricetta, immutabile da sessant’anni, preparata in un forno a legna, e venduta solo al trancio, Massimo Innocenti ha fatturato circa dieci milioni di euro nel 2012 e facilmente realizzato un utile invidiabile e irraggiungibile per chef-patron e ristoranti di tendenza.

Stiamo parlando di Spontini, la catena di pizzerie sotto la Madonnina – recentemente ampliata cinque con il sito di Piazza Cinque Giornate – che attira un pubblico mai così “trasversale”: dallo studente che paga in monetine alla coppia giapponese tutta felice perché ha trovato il locale indicato sulla sua guida. Qui si pratica “socialismo reale”: bigliettino e trancio da portare via – per la cronaca costa 9,50 euro al kg – oppure da gustare in sala, spesso attaccati uno all’altro, a mangiare una porzione da 5 o 5,50 euro. Senza neppure un caffè a seguire: Spontini è pizza al trancio, stop. E solo nella versione di cui sopra.

I risultati economici danno ragione a Innocenti che esibisce un altro primato: nel locale storico della catena, quello appunto in Via Spontini (traversa di Corso Buenos Aires), mediamente si vendono 300 teglie il sabato e altrettante la domenica. Ha anche creato BirraMi – megabirreria con cucina e rilanciato il mitico Smeraldino – uno dei simboli della Milano da bere, a due passi (reali) da Corso Como – trasformandolo in un bistrot dedicato al pesce e alle sue cotture.

Innocenti, sino al 2007, di lei si sapeva solo che era il titolare di una pizzeria storica di Milano. Come ha deciso di allargare l’attività in grande stile? 
Diciamo che fino a quel momento prevaleva la mia anima di “bottegaio”. Del resto, la mia famiglia è sempre stata legata alla ristorazione con vari locali, importanti a Milano ed era subentrata nel 1977 a quella che aveva fondato Spontini. Ho deciso di dare una svolta manageriale, perché questo periodo lo richiede: o sei un fenomeno o non sopravvivi se non pensi a una catena di locali o qualcosa di simile.

È così difficile?
In Italia è un’impresa, sostanzialmente per due ragioni. La prima: le banche sono già restie a prestare soldi agli imprenditori, figuriamoci a quelli della ristorazione. Non hanno specialisti in questo settore a differenza degli istituti di credito americani, inglesi o giapponesi. La seconda: spesso si trovano davanti progetti incompleti o fatti male. Perché nel nostro settore, sono tutti bravi a parole ma pochissimi sanno fare i conti. Fosse per me, nelle scuole alberghiere che ora vanno per la maggiore, oltre alla cucina e alla sala, dovrebbero creare una specializzazione manageriale.

Lei ce l’ha fatta però.
Ho trovato un socio del settore finanziario che mi ha aiutato a rompere il ghiaccio, in caso contrario dubito del risultato. Ma soprattutto ho deciso che bisogna uscire dai nostri confini. Tra poco partirà un franchising in Giappone dove ci conoscono già e sto lavorando per aprire un corner o qualcosa del genere a Londra: gli affitti di un vero locale non sono sopportabili in questo momento.

Fa un po’ sorridere che sia un brand toscano-milanese a portare nel mondo il nome della pizza del trancio.
Io semmai rifletterei sul fatto che siamo considerati il Paese della pizza e abbiamo lasciato agli stranieri il business nel mondo. Ha presente Sbarro? Persino Rosso Pomodoro è finito a un fondo inglese. Sia chiaro, avere delle partecipazioni importanti è un plus: solo da noi ci sono persone che hanno storto il naso quando gli Alajmo trovarono un partner finanziario di peso. Però, non possono rubarci la pizza!

Non sarà colpa nostra?
Diciamo che siamo tutti piccoli imprenditori e non facciamo gruppo o massa d’urto: nella ristorazione come nel resto. Ognuno si sente bravissimo e non sopporta l’altro. E questo si paga soprattutto in un periodo come questo.

Scommetto si riferisca anche ai suoi colleghi dell’alta ristorazione.
Io non sono un cuoco, al massimo un bottegaio che sta studiando da manager. Però il mercato dice una verità: tanti chef saranno bravissimi a far da mangiare, a cucinare in televisione e a scrivere i libri ma sui conti capiscono poco o nulla. Quanti sanno calcolare il costo di un singolo piatto o sanno leggere i bilanci? Per me pochissimi. Altrimenti non si capirebbe perché sono costretti a fare mille altre cose per tenere in vita i loro locali o finiscono a fare i dipendenti. In generale, li trovo presuntuosi.

E Oscar Farinetti (patron di Eataly) invece? Tra poco aprirà a pochi metri dal suo Nuovo Smeraldino.
Un genio, sin dai tempi di Unieuro. Ovviamente non le azzecca tutte, ma chi ci riesce in questo settore? Leggo che ora alcuni lo contestano per scelte più “commerciali” di un tempo ma solo gli stupidi non cambiano idea o non modificano i progetti in base alle situazioni. L’unica critica che posso fargli è l’essersi schierato apertamente sul fronte politico: per me chi fa ristorazione non deve parlare di politica o di religione. Si tiene le sue idee e si occupa di far star bene le persone. Nel mio caso sette giorni su sette perché anche questo è un concetto importante, internazionale, moderno.

Moderna è anche la tendenza di giudicare i locali sul web. Ci dicono però che lei sia ostile al popolarissimo Trip Advisor.
Non credo di essere il solo. È un modo sbagliato, scorretto di utilizzare il web. Tu puoi venire in un mio locale e trovarti male: bene, non venirci più ma che ha senso ha criticare in forma anonima? Non sto neppure a ragionare sulla possibilità che molte recensioni positive o negative siano false ma dico che lo scrivente deve mettere nome e cognome reali. Questa mania di fare critiche anonime è assurda e pericolosa.

È vero che passa le giornate vagando da un locale all’altro per controllare se tutto funziona? Ci vuole sempre l’occhio del padrone?
Sto imparando a farlo meno. Da un lato sono troppo legato ai miei locali, dall’altro è un limite. Bisogna saper delegare a persone di fiducia, soprattutto ora che la Spontini Holding ha un centinaio di dipendenti. Ma d’altronde sono un bottegaio.  

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