Un anno e mezzo fa Linkiesta pubblicava un articolo che s’interrogava sul futuro dei paesi emergenti: Cina, India, Brasile, Russia e Turchia – sono visti non solo come nuovi epicentri degli equilibri mondiali, ma anche come risorse per la rinascita occidentale. Lo sa bene la Germania, che più di ogni altro ha puntato sull’Asia per la sua economia orientata alle esportazioni, e che da sempre dedica cura particolare ai rapporti con Turchia e Russia. Ma siamo così sicuri che i Bric siano davvero uno stabile punto di riferimento per il mondo? A mesi di distanza, alcuni dei dubbi sollevati dall’articolo del 2012 sembrano essersi trasformati in preoccupazioni, se non addirittura problemi e ostacoli.
La questione cinese è nota: fino a che punto si può spingere un’economia a comando statale, prima di non essere più in grado di rispondere alla complessità del mercato? È una questione che l’Occidente si è posto solo fino ai primi anni 2000, ancora ebbro di quei “Roaring Nineties” che hanno fatto la fortuna di molti. Poi, al rallentamento di Europa e Stati Uniti, le voci critiche sono state messe a tacere. Si diceva che i commentatori occidentali peccassero di “etnocentrismo”: perfino l’Economist si è spinto a celebrare le virtù dello “state capitalism”. A noi è rimasto l’onere di soffrire il cilicio intellettuale di decine di articoli sul tema: “non siate stupidi: la Cina è il nuovo modello!”.
È presto per sostenere che il grande paese asiatico abbia raggiunto i suoi limiti, ma certamente i dati degli ultimi tempi dimostrano qualche incertezza. Alcuni parlano impropriamente di “rallentamento cinese”, mentre il realtà Pechino ha ancora a che fare con un “rallentamento della crescita”. In maggio, le esportazioni sono aumentate, ma solo dell’1%, rispetto alle aspettative del 7 per cento. Si potrebbe trattare del semplice effetto di revisione di alcuni processi contabili, visto che troppe aziende cinesi gonfiavano i dati per scommettere sui rialzi della valuta cinese.
Però un dato resta: il 31 maggio il governo cinese non è riuscito a piazzare tutti i titoli di debito pubblico che aveva messo in offerta. Su un bouquet totale di 15 miliardi di yuan (circa 1,8 miliardi di euro), gli investitori ne hanno comprati appena 9,5. Peraltro, la Cina ha dovuto aumentare l’interesse pagato sui titoli venduti al 3,76%, rispetto al precedente 3,14%. Se non basta, ricordiamo che è stata la seconda asta fallita in un mese (l’Agricultural Development Bank of China ha piazzato 11,6 miliardi di yuan di titoli su 20 miliardi in offerta). Si sostiene che il fallimento delle aste sia dovuto agli investitori che stiano ritirando capitali per pagare le tasse. Ci sono però altri dati su cui riflettere: l’indice dei prezzi industriali cinesi è sceso a maggio del 2,9%, cioè il quindicesimo mese di declino. L’inflazione è bassa – galleggia sopra al 2% – e non è un buon segnale se i prezzi industriali sono in discesa.
Non appare quindi sorprendente se in Cina i dati più recenti segnalano che appena il 52,4% dei neolaureati trova lavoro (in discesa del 7% rispetto al 2012). Ci sono problemi evidenti di domanda. A questo punto, però, la questione diventa ideologica: il “sistema statale” sta producendo masse di laureati che hanno ben poche speranze di trovare una collocazione. L’economia cinese, con tutte le sue ricchezze e potenzialità, non è ancora riuscita ad affrontare la questione principale: sollevare la domanda interna. Non si può pretendere che esista un mercato infinito per le esportazioni cinesi. Solo per assorbire i nuovi laureati, l’economia cinese ogni anno ha bisogno di sette punti percentuali di Pil in più.
Che succederà se milioni di studenti cinesi senza lavoro staranno a spasso? Il fantasma di Tien-an-men si aggira nelle stanze del partito. Dopo le rivolte del 1989, la leadership cinese ha promosso un piano imenso di “cooptazione intellettuale” di giovani e studenti, basato sulla promessa di un radioso avvenire materiale. Come sempre, però, il rischio “no money, no party” – e “party” in inglese significa sia “festa”, che “partito”.
Per quanto riguarda la Russia, il dibattito ha molte analogie con la Cina: “voi non ci capite, perché chiedete la democrazia, mentre in realtà noi stiamo bene così!”. Il bello è che i russi hanno ragione: dopo quel bel lavoro combinato dall’amministrazione Clinton e dal Fondo Monetario negli anni Novanta, l’”idea occidentale di sviluppo e società aperta” per i russi significa umiliazioni e crisi terribili. Il modello russo trarrebbe spunto dal passato zarista: si sostiene che il popolo non cerchi la rappresentanza politica, ma “una guida”. Il resto sono chiacchiere da “narcisisti politici” che cercano le luci della ribalta opponendosi a un sistema che funzionerebbe benissimo. Ci sono due limiti, però. Il primo è che il sistema russi si tiene in piedi per il petrolio e il gas. Se gli Stati Uniti diventeranno energeticamente indipendenti entro il 2030 – come segnala l’Energy Information Administration – ci saranno ben pochi barili con cui finanziare la macchina politica e militare del paese. Il secondo limite riguarda il dibattito stesso, e merita paragrafo a parte.
È ora di finirla con l’accusa russa che “l’Occidente vuole imporre i propri valori alla Russia”. Noi occidentali, a parte qualcuno rimasto ai Nirvana e a Kevin Kostner, non ci pensiamo nemmeno. Qualsiasi sistema che sia in grado di tenere insieme la Russia, enorme blocco geo-nazionalista in Eurasia, per noi va benissimo. Non possiamo pensare a niente di peggio rispetto a un nuovo crollo del paese, che comporterebbe un nuovo delirio politico in Asia Centrale, e un’Iran fuori controllo.
L’unica cosa che si chiede alla Russia riguarda i valori universali condivisi dalla Russia stessa – quella sovietica, peraltro – alla fondazione delle Nazioni Unite. Si tratta di robetta come diritti umani, trasparenza e indipendenza del settore giudiziario, libertà di parola. Se nel pacchetto è possibile includere il rispetto delle scelte sessuali (o non-scelte) sarebbe cosa gradita – e che di certo ha poco a che fare con l’”imposizione di sistemi politici dall’Occidente”. Ma non sorprende: i continui richiami al nazionalismo servono solo per distogliere dalla fragilità intrinseca dell’economia nazionale.
Il Brasile rappresenta in parte il problema tipico di tutte le economie “emergenti”. C’è un paese arretrato economicamente, con un buon livello di leadership urbana, tanta manodopera a basso prezzo, e una serie di regolamentazioni terribili che impediscono la crescita. Arriva una guida politica “forte” che collega il paese alle dinamiche del commercio globale. In casa, abbassa i tassi d’interesse e iniziano gli investimenti immobiliari. L’economia cresce, quindi il paese può prendere soldi in prestito (oltre ai maggiori introiti fiscali) e può investire in infrastrutture.
Poi, però, serve qualcos’altro: riforme più adatte al contesto, sicurezze e rappresentanza politica per la classe media, differenziazione economica. Forse il problema è insito nel rapporto tra economia e politica: a un certo punto, i paesi sono “stanchi di crescere”. Forse aspirano tutti al modello occidentale, in cui ci si concentra sui servizi, ma qualcuno i bulloni li dovrà pur avvitare; e qualcun altro le magliette le dovrà pur cucire. Per questo, si arriva a un certo punto in cui non c’è più mercato per la produzione, e non c’è più spazio per i servizi. Il governo può reagire abbassando i tassi e stimolando la spesa con investimenti pubblici, ma ciò si trasforma regolarmente in stagflazione (aumentano insieme disoccupazione e inflazione). Il risultato è il crash economico e, nel peggiore dei casi, il caos in piazza.
Il Brasile doveva spaccare il mondo, e di certo ha compiuto molto passi in avanti rispetto a vent’anni fa. Però nel 2012 è cresciuto solo dell’1% – sufficiente appena ad accomodare l’aumento della popolazione. Per rispettare i suoi obbiettivi di bilancio, il governo ha tagliato spese infrastrutturali e si è anticipato contabilmente dividendi di aziende pubbliche. Con soddisfazione degli invidiosi, ha prelevato anche dal “Fondo Sovrano” d’investimento (il “Fundo Soberano do Brasil”) nato nel 2008, che aveva fatto tremare tutti – e aveva dato tanto lavoro a noi sempre grati giornalisti economici. Ancora nel 2010, il Brasile cresceva del 7,5% l’anno.
La soluzione brasiliana? Svalutare il real del 10%. Così, le esportazioni potranno riprendere. Rimane da chiederci: ma chi comprerà tutta questa roba? Saremo nostalgici fan degli anni Novanta, tra Nirvana e Kevin Kostner (forse quest’ultimo un po’ meno), ma viene da pensare a quanto scriveva a suo tempo Joseph Stiglitz: pensare che tutti possano crescere esportando, presuppone che ci siano consumatori su Marte. Sembra, cioè, che presi singolarmente questi paesi abbiano fatto tutto correttamente: riformare, aprire ed esportare. Il problema è la loro somma.
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