L’Unione europea si allarga: dal 1° luglio entra a farne parte anche la Croazia. E tra le conseguenze dell’allargamento è fin troppo facile prevedere che vi sarà una guerra, quella tra prosecco e prošek, destinata a sollevare un nuvolone di polemiche e a mietere inutili vittime. La disputa tra i due vini, diversissimi fra loro, ma con un nome pericolosamente simile, rischia di ripercorrere le orme di quella tra l’ungherese tokaji e il friulano tocai, conclusasi nel 2007 con la sconfitta del secondo, costretto a cambiar nome.
Il prosecco è un vitigno dei colli di Valdobbiadene e Conegliano che dà un vino frizzante, ottenuto per ossigenzione col metodo Martinotti (detto Charmat da chi non tollera che qualcosa nel vino sia nato fuori dal proprio territorio). L’origine del prosecco è abbastanza recente: nel 1860 il conte Marco Giulio Balbi Valier nei suoi vigneti di Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, separa le viti di prosecco da quelle di verdiso e bianchetta, fino ad allora coltivate mescolate, ottenendo dei risultati molto positivi (e condannando inconsapevolmente all’oblio il verdiso e la bianchetta che qualcuno ora si sta occupando di recuperare). La vera svolta arriva negli anni Trenta del Novecento quando Carpené Malvolti comincia a commercializzare con successo il prosecco.
Il prošek è un vino passito, ottenuto con vitigni originari della Dalmazia meridionale. I grappoli sono messi ad appassire sui tetti delle case, in particolare dell’isola di Lesina (Hvar), al largo di Spalato (Split). Il cuore della produzione è nell’abitato di Gelsa (Jelsa).
Fin qui i dati incontestabili, poi cominciano le leggende. I croati dicono che il prošek ha duemila anni perché è il vino dolce che beveva l’imperatore Diocleziano, originario, per l’appunto, di Spalato. I veneti affermano che il prosecco origini dal pucino, citato da Plinio come vino dell’Alto Adriatico, dal quale sarebbe derivata la glera a sua volta progenitrice del prosecco. Ovviamente nessuna di queste affermazioni è provabile: nessuno è in grado di dire quale vino bevesse Diocleziano. Tra l’altro molto spesso nomi uguali indicano vitigini diversi (tanto per dire la malvasia può essere sia dolce sia secca, e ovviamente non si tratta dello stesso vitigno). E d’altra parte nessuno è pure in grado di identificare il vitigno del pliniano pucino: non sappiamo nemmeno se fosse un vino bianco o rosso (infatti viene a piacimento indicato anche come l’antenato del rossissimo, quasi violaceo, terrano, un vino tipico del Carso triestino).
La Croazia nel corso delle lunghe e complicate trattative per l’adesione all’Unione europea si è poco preoccupata di difendere le sue tipicità e il prošek tra queste. L’Italia, invece, quando era ministro dell’agricoltura Luca Zaia, guarda caso originario di Conegliano, in provincia di Treviso, ovvero della zona di produzione del prosecco, nel 2009 ha enormemente allargato la doc di produzione fino a comprendere la località di Prosecco, sul Carso triestino. Questo perché se una doc comprende una luogo geografico con il medesimo nome del vitigno, nessuno è autorizzato a produrre un vino con quel nome. Quindi se qualcuno prima del 2009 impiantava vitigni di prosecco in Australia, o in Sudafrica, o in Argentina, poteva denominare quel vino prosecco, ora non più più farlo.
Non si sa quali legami esistano tra la località di Prosecco e il vino prosecco, probabilmente nessuno. Qualcuno afferma che nella stazioncina ferroviaria del paesello carsico venissero caricate nei treni diretti a Vienna le botti di prosecco provenienti dai colli trevisani. Ma non si capisce proprio perché le operazioni di carico – ammesso che siano davvero mai esistite – dovessero avvenire nella minuscola stazione del piccolo paese anziché nel grande scalo commerciale della vicina Trieste. E visto che il Veneto è stato annesso all’Italia nel 1866, ovvero sei anni dopo la sperimentazione del conte Balbi Valier, è improbabile assai che il prosesso fosse già diventato un prodotto da export.
Per giustificare l’operazione – che in realtà non consiste in nulla di diverso dall’affilare le armi in vista di possibili guerre commerciali – si è detto che il prosecco derivi dal vitigno glera tipico dei colli alle spalle di Trieste. Ma, attenzione non del Carso dove si trova Prosecco, bensì delle prime propaggini istriane (Dolina, Muggia). Insomma la verità vera è che la parentela tra prosecco e glera è stata stabilita per decreto, ma ormai è diventata una verità rivelata, tanto che la voce “glera” di Wikipedia recita: «La glera è un vitigno a bacca bianca, componente base del prosecco».
A dare fuoco alle polveri è stata in aprile una gaffe del ministro dell’agricoltura croato. Tihomir Jakovina, questo il suo nome, ha detto che la Croazia avrebbe dovuto rinunciare alla produzione del prošek sollevando un vespaio di polemiche. Particolarmente irritato Andro Tomić, uno dei più importanti produttori di prošek. Dalla sua Gelsa ha tuonato: «Il prošek è prodotto nelle nostre terre da oltre duemila anni ed è nato molto prima dello Stato italiano. Prošek è semplicemente una parte della nostra tradizione. È come se ci dicessero che vogliono una parte del nostro mare».
Ci siamo: l’unica cosa certa in queste battaglie è che si scatenano i più beceri nazionalismi. Significativo il fatto che la versione croata del sito di Tomić si apra con una foto di lui avvolto nella bandiera a scacchi della Croazia e con addosso una maglietta dalla scritta: «Ci sono ancora persone, ci sono ancora terre, c’è ancora vino che vale» (mentre nella versione inglese compare una più neutra foto di lui che sorseggia un calice di vino).
E se qualcuno volesse farsi un’idea del nazionalismo italiano, basta che vada a vedersi commenti tipo: «La solita cultura slava di avanzare propri diritti senza considerare i diritti degli altri», comparsi sotto un articolo pubblicato a inizio maggio dal Corriere.it.
I rulli di tamburi e gli squilli di tromba non annunciano niente di buono. Un po’ di buonsenso suggerirebbe che un vino passito e un vino frizzante possano anche tenersi un nome simile, perché chi li confondesse sarebbe degno di bere solo Coca-Cola. Ma anche il tokaji ungherese è un vino dolce e il tocai friulano è un vino secco (per non parlare del tocai rosso dei Colli euganei, pure quello costretto a cambiar nome) eppure si è andati alla guerra.
L’Italia non è stata capace di costringere a far cambiare i nomi commerciali ai produttori americani di cambozola (che imita il gorgonzola) e ha vinto solo a metà la battaglia contro il parmesan (non si può più produrre in Germania, ma fuori dall’Ue sì: il Wisconsin Parmesan ha vinto il titolo di miglior formaggio Usa nel 2009). Ha perso la battaglia con l’Ungheria per il tocai. Che succederà ora con il prosecco-prošek? Certo che se esistesse ancora la Jugoslavia i produttori di prošek, avrebbero vita molto più facile: basterebbe – Zaia docet – allargare la doc del vino passito fino a comprendere il sito archeologico di Prosek, in Macedonia, e il gioco sarebbe fatto. Ma la Macedonia non fa parte dell’Unione europea. Per ora.
Twitter: @marzomagno