C’era una volta “il piccolo schermo”. Uno solo: quello del televisore di casa. Poi ne arrivarono altri. Quello del computer, soprattutto, seguito negli ultimi anni da tablet e smartphone. E la televisione, grazie a Internet, si è affrancata dallo schermo televisivo per dilagare in tutti gli altri. Secondo una ricerca di eMarketer, l’80 per cento degli statunitensi usa Internet e dichiara che potrebbe fare a meno dell’apparecchio tv. Se si scompone il traffico Internet delle case del Nord America durante le sere infrasettimanali, si scopre che quasi un terzo è generato soltanto da Netflix, la più grande piattaforma a pagamento di streaming televisivo on demand, nonché ultimo fenomeno della Borsa americana.
Nata nel 1997 come servizio di videonoleggio online, oggi Netflix rende la televisione interattiva e portatile, seguendo la logica delle “tre any”: anywhere (dovunque), anytime (in qualsiasi momento), any device (su qualsiasi dispositivo). Dietro c’è una complessa architettura informatica, basata sul cloud computing (Netflix usa i server di Amazon) e su programmi che ottimizzano ogni file per le esigenze di chi guarda. Film e show si possono vedere su una tv, sul pc, sul telefono e persino passando dalla Xbox o dalla Playstation. Per usare Netflix, basta sottoscrivere un abbonamento: il prezzo, oggi, ammonta a 7,99 dollari al mese.
Non è una cifra esorbitante per gli americani, abituati ad abbonarsi già alle tv via cavo fin dagli anni Sessanta. E il sistema, che ritaglia la fruizione sui gusti degli spettatori (a conferma della teoria della coda lunga), funziona. Per l’azienda è un periodo d’oro. I risultati economici dell’ultimo trimestre, resi noti a fine aprile, hanno lasciato a bocca aperta Wall Street. Per la prima volta le entrate hanno superato il miliardo di dollari, con l’aggiunta di oltre tre milioni di nuovi clienti (di cui due milioni negli Usa). Cifre che hanno battuto qualsiasi stima, con azioni in rialzo fino al 20 per cento.
In tutto, gli abbonati sono più di 36 milioni. Nei soli Stati Uniti, il mercato più forte, arrivano a 29,2 milioni. Secondo l’amministratore delegato Reed Hastings, l’apertura in nuovi mercati fuori dall’America – operazione che dovrebbe continuare nella seconda metà del 2013 – ha dato risultati molto positivi. Ma l’incremento degli utenti è stato favorito anche, se non soprattutto, da un’altra scommessa: la proposta di contenuti targati Netflix. Ovvero, il passaggio dalla distribuzione alla produzione propria.
Secondo il magazine americano The Atlantic, la strategia di Netflix può essere riassunta in tre punti. Uno: compra materiale inedito. Due: aumenta gli abbonati. Tre: guadagna. Il punto di svolta è stato House of Cards, serie televisiva con Kevin Spacey. Un thrillerone politico da 100 milioni di dollari in 13 episodi. House of Cards ha debuttato la sera del primo febbraio di quest’anno. Sulla schermata di Netflix, gli utenti non hanno trovato soltanto il primo episodio, ma l’intera serie. Da vedere un episodio alla volta, o tutti insieme. Con tanti saluti all’appuntamento settimanale e alla necessità (creativa) di trovare un finale a effetto per ogni puntata.
Al momento del lancio di House of Cards, milioni di persone stavano usando Netflix in prova gratuita. Di loro, soltanto ottomila hanno cancellato il servizio dopo aver visto la serie. Gli altri hanno comprato un abbonamento. Le recensioni dei critici sono state positive, come quelle degli utenti. E in un sondaggio, il 90 per cento degli intervistati ha citato la serie come un motivo per rinnovare la sottoscrizione.
Così, Netflix può affermare che la base di abbonati e i ricavi stanno crescendo più velocemente delle spese per i contenuti video. E vuole raddoppiare la produzione delle serie (i cui generi e attori protagonisti vengono scelti in maniera accuratissima, tramite algoritmi che calcolano il possibile richiamo di pubblico). Purtroppo all’offerta mancano ancora le dirette dello sport, vera gallina dalle uova d’oro per la tv tradizionale. E deve vedersela con un mercato dove avversari capaci come Hbo (la casa delle serie tv più rinomate), YouTube (leggi: Google), Hulu (di cui vuole impadronirsi Yahoo) e Amazon continuano a crescere, affinando le loro infrastrutture digitali e mettendo in cantiere dei telefilm, proprio come Netfix. Ma l’azienda di Reed Hastings non rinuncia a guardare oltre l’America.
L’espansione di Netflix potrebbe riguardare, finalmente, anche l’Italia. Così dicevano, qualche mese fa, alcuni rumor. Ci sarebbe stato un indizio, sul sito aziendale: gli annunci di lavoro, resi noti a ottobre, per chi conosce «turco, tedesco, hindi, norvegese, coreano, giapponese e italiano». A febbraio si è saputo che l’unica posizione ancora scoperta era quella in norvegese. Ma le grandi emittenti italiane ancora non danno segnali di preoccupazione né d’interesse per lo streaming a pagamento.
Con un’eccezione. A marzo, Piersilvio Berlusconi ha annunciato che, entro dicembre, Mediaset lancerà «una Netflix italiana» il cui nome provvisorio è “Infinity”. Ancora sconosciuti prezzi e contenuti (i quali, promette Berlusconi, saranno tantissimi). «Dubito che riusciranno nell’impresa. Se sono così bravi, perché non fanno funzionare Mediaset Premium, che a parte il calcio è poca cosa?». Enrico Menduni, docente di Culture e formati della televisione e della radio all’Università Roma Tre e studioso di lungo corso della tv e della radio, è scettico. Non è convinto della velocità di evoluzione del colosso di Cologno Monzese. Ma neanche il panorama della televisione a pagamento, molto ristretto e molto evoluto (vista la qualità di Sky), gli sembra propizio per imprese del genere.
In Italia la pay tv è soprattutto il marchio di Murdoch: concorrente aggressivo, con un’offerta ampia, difficile da battere. E, dall’altro lato della barricata, c’è il digitale terrestre gratis. «Al netto della crisi economica, è comunque un assetto solido. Per affermarsi Netflix avrebbe bisogno di una connessione maggiore e di una tv più sfigata», dice Menduni. Fosse per lui, sconsiglierebbe a Netflix uno sbarco dalle nostre parti: «Indicherei piuttosto Germania e Francia. Lì la tv generalista ha minor presa sul pubblico, mentre la pay per view non ha la potenza dello Sky italiano». A monte di tutto, da noi, c’è la scarsa abitudine a pagare per vedere la tv.
«Di fatto, in Italia ci siamo arrivati solo negli anni Duemila. Siamo gli ultimi: in America si paga per la tv via cavo fin dagli anni Sessanta», ricorda Menduni. È d’accordo Nicoletta Vittadini, coordinatrice dell’Almed (Alta scuola in media comunicazione e spettacolo) dell’Università Cattolica di Milano, che ricorda gli ultimi dati Audiweb: nel nostro Paese, l’audience online da pc coinvolge metà della popolazione. Trenta milioni di utenti collegati in media per un’ora e mezza (con 40 minuti dedicati agli audiovisivi) al giorno.
Tra loro, secondo la professoressa, la pratica del consumo televisivo va già nella direzione dello streaming. «Ma il successo dipenderebbe dall’avere un catalogo allettante, con molti film e programmi in italiano. La percentuale degli appassionati di lingua originale è ancora bassa. Il passo successivo sarebbero le produzioni originali, fatte in Italia». Basso prezzo e alta qualità potranno sfidare streaming gratuito e pirateria? Molto dipenderebbe dagli accordi con i produttori. Meno facili di quello che si potrebbe pensare, «perché non vogliono far morire le sale», osserva Menduni. Eppure, per pellicole e telecamere, i servizi come Netflix sono le uniche alternative paragonabili alla funzione di Spotify e iTunes per la musica.
Anche Hollywood sta in guardia, ma per altre ragioni: espandendosi all’estero, per spendere meno Hastings potrebbe voler rinegoziare i contratti con gli studios, ancora fonte primaria di film e spettacoli. Netflix intanto non risparmia le ambizioni e prova a diventare più grande di Hbo, avversaria storica e regina dell’intrattenimento televisivo di qualità. Potrebbe riuscirci, costringendola a cambiare faccia: «Quando mi chiedono se diventeremo come Hbo, rispondo: “No, Hbo diventerà come Netflix”», disse l’anno scorso a Bloomberg Businessweek Ted Sarandos, capo della programmazione. Trasformazioni che guarderemo da lontano, chissà ancora per quanto tempo.