Chi ha ancora paura di Frankenfood? A trenta anni dal primo organismo vegetale geneticamente modificato (Ogm) e a quaranta da quando Stanley Cohen e Herbert Boyer misero a punto la tecnica del Dna ricombinante, qualcuno ancora c’è. Secondo i dati di Eurobarometro 2010 sulle biotecnologie, gli europei sono ancora scettici nei confronti degli alimenti Ogm, considerati come pericolosi dal 54% degli intervistati. In Italia poi, unico Paese ad aver bloccato la ricerca su campo con piante transgeniche, il 59% degli italiani si rivela contrario al consumo di Ogm vegetali. Da noi non è ancora possibile coltivare Ogm, ma solo importarli. E sta di fatto che tutta la soia usata nei nostri allevamenti è geneticamente modificata. Un Frankenfood insomma.
Il termine coniato nel 1992 da Paul Lewis, un professore universitario statunitense, divenne poi il grido di battaglia europeo nella lotta contro l’esportazione americana di cibo geneticamente modificato; e non poteva riassumere la vicenda in maniera migliore: un esperimento “mostruoso” aveva portato alla nascita di organismi (piante, cibo, animali soprattutto) diversi da quelli “normali”, geneticamente modificati, che nel contempo suscitavano paura e repulsione. La stessa paura descritta in Frankeisten e suscitata dal progredire della tecnologia.
Che fu per la paura di una nuova tecnologia talmente innovativa, o per una comunicazione errata o mancata, sta di fatto però che gli Ogm, soprattutto in Europa non ebbero vita facile. Nature festeggia quest’anno con un numero speciale i loro primi trenta anni, segnati dalla pubblicazione di un articolo in cui per la prima volta veniva descritta una pianta geneticamente modificata. «Nel 1983 nasce ufficialmente l’ingeneria genetica, quando al Miami winter symposium on molecular genetics of plants and animals, tre gruppi di ricerca annunciarono contemporaneamente di aver trasferito per la prima volta in cellule vegetali un gene marcatore, quello per la resistenza all’antibiotico kanamicina. Si trattava della Washington University di St. Louis, Stati Uniti, dell’Università di Gent in Belgioe dell’industria agrochimica destinata a guidare la rivoluzione biotecnologica in agricoltura, la Monsanto di St. Louis» scrive Anna Meldolesi su Treccani.it.
Fu sempre la prestigiosa rivista scientifica inglese a pubblicare nel 1999 un articolo, in seguito smentito da studi più approfonditi, che dimostrava come il polline del mais Bt (Ogm) riducesse la sopravvivenza delle farfalle monarca, mettendone a rischio l’esistenza. Un anno prima un’altra ricerca aveva dimostrato come l’uso di patate transgeniche, mai entrate in commercio, avesse compromesso l’apparato digerente di ratti nutriti con questa varietà. È in questi anni che la protesta raggiunge il culmine.
Per arrivare a questo punto bisogna fare un salto indietro. Nel 1973 Stanley Cohen e Herbert Boyer riescono per la prima volta a modificare direttamente il Dna di un individuo. Trasferiscono materiale genetico di una rana all’interno di un altro individuo, attraverso l’uso di plasmidi, vettori in grado di trasportare il gene, come fosse un cavallo di Troia. Una volta all’interno il gene estraneo si fonde con il Dna dell’organismo ospite e viene replicato con esso. La nuova tecnica da subito appare come qualcosa di rivoluzionario, che apre notevoli prospettive per diversi settori, dalla medicina all’alimentare. Tanto che gli stessi scienziati decidono di autoimporsi una moratoria, che blocchi qualsiasi tipo di esperimento di ingegneria genetica, fintanto che non si decida come affrontare questa nuova tecnologia.
Nel 1975 si riuniscono ad Asilomar in California, centoquaranta biologi provenienti da diciassette paesi discutono dei rischi dell’ingegneria genetica per decidere come gestire questa nuova tecnologia. L’anno dopo i National institutes of health (NIH) americani pubblicano delle linee guida ancora oggi applicate in un qualsiasi laboratorio che esegua esperimenti di genetica.
Vengono modificati microrganismi, animali – il primo nel 1982 prodotto da Richard Palmiter e Ralph Brinster che trasferirono un gene di altro animale in un embrione di topo – piante e microorganismi. Sul finire degli anni ’70 la Genentech americana, sfrutta proprio i microrganismi Gm per produrre farmaci biotech: la somatostatina (1977) e l’insulina al (1978). Ma altri vengono utilizzati per l’industria cosmetica, alimentare e per degradare composti tossici. Mentre gli animali vengono modificati per lo più per uso di ricerca scientifica. In America nel 1994 fa la sua prima comparsa anche il primo vegetale Gm: il pomodoro Flav savr che aveva la caratteristica di poter resistere più a lungo sugli scaffali a discapito però del sapore. Ma è solo il primo tentativo e gli americani lo accolgono per niente scettici. Seguiranno soia, cotone, patate, colza e mais.
Diversa è la situazione nel Vecchio Continente. Nel 1996, gruppi di ambientalisti assaltano la prima nave americana che sta portando in Europa soia Ogm. Siamo solo all’inizio. Si susseguono scontri e le manifestazioni finché a causa della pubblicazioni scientifiche già citate si arriva a una moratoria che blocca in Europa il processo delle autorizzazioni per nuovi Ogm, durata dal 1999 al 2004. Moratoria giudicata illegittima dalla Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization), perché varato in assenza di evidenze scientifiche credibili su eventuali rischi per la salute o per l’ambiente.
Oggi mezzo pianeta coltiva Ogm vegetali, dalle Americhe alla Cina e qualcosa inizia a muoversi anche in Europa, dove subito dopo la fine della moratoria alcuni Paesi iniziarono a coltivare Ogm. Nel 2009 oltre 14 milioni di agricoltori nel mondo avevano fatto uso di Ogm più di 134 milioni di ettari. La ricerca sugli Ogm vegetali però viene svolta prevalentemente dai grandi gruppi multinazionali, per motivi commerciali ed economiche. Proprio per questo motivo e per il basso beneficio scientifico continuano a essere osservati con diffidenza dalla società.
Sebbene numerose ricerche, trial e test di sicurezza condotti a partire dalla conferenza di Asilomar abbiano confermato l’innocuità degli Ogm vegetali. In particolare, i primi studi per valutarne la sicurezza partirono nel 1985 e la Commissione europea sempre in quegli anni, sviluppò un programma per valutare le possibili implicazioni sanitarie, ambientali, economiche e sociali connesse all’introduzione degli Ogm. Il programma durato quindici anni (1985-2000) ha coinvolto oltre 400 centri di ricerca pubblici per un investimento complessivo di 70 milioni di euro. Nel 2009, erano disponibili oltre 8500 pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza degli Ogm sotto i diversi punti di vista.
«Ormai è 20 anni che la gente li mangia e non è mai successo nulla. Anzi, un Ogm per essere messo sul mercato deve fare talmente tanti controlli da essere tra le piante più sicure. Sono studiate in tutti i minimi dettagli, cosa che non avviene per le altre piante per uso alimentare. Prima di avere il nulla osta per la commercializzazione con tutti questi controlli, possiamo stare certi che se ci fosse qualcosa che non va verrebbe fuori» spiega a Linkiesta Chiara Tonelli, professoressa di microbiologia e genetica all’Università degli studi di Milano.
Nature infine analizza con occhi da giudice tre casi in particolare sulla controversia da Ogm: le erbe infestanti, i suicidi dei contadini indiani e la contaminazione del mais messicano. Per quanto riguarda la prima domanda, se gli Ogm hanno favorito lo sviluppo di erbe infestati resistenti agli erbicidi, la riposta è sì. Negativa invece per quanto riguarda i suicidi dei contadini indiani che si sosteneva fossero aumentati a causa delle coltivazioni di cotone Bt. Da anni invece un’approfondita ricerca ha mostrato come in realtà fossero rimasti costanti o addirittura diminuiti, grazie a una resa maggiore con le coltivazioni Ogm. “sconosciuto” è invece il responso per quanto riguarda la contaminazione del mais messicano con quello Ogm.
Tirando le somme, oggi sappiamo che gli Ogm aumentano le rese, riducono l’uso di pesticidi e sono più controllati di altre piante. Ma ancora non convincono e in Italia non possiamo coltivarli: «Perché le lobby del biologico non vogliono essere contaminate» precisa Tonelli. «Eppure sono il futuro: in campo agricolo avremo sempre più bisogno di piante che sappiano affrontare il cambiamento climatico: ora una stessa pianta, durate il suo ciclo vitale va incontro a periodi di siccità caldo, pioggia, freddo e perciò vanno rese sempre più robuste. Questo significa migliorarle dal punto di vista genetico per affrontare questi stress. Gli alimenti invece potranno essere arricchiti di vitamine o altre sostanze necessarie» .
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