C’è una polveriera pronta a esplodere al palazzo del Viminale – sede del ministro dell’Interno Angelino Alfano – e non nasce solo dall’affare Kazakistan. È una vicenda che preoccupa la politica italiana, da destra a sinistra, perché da quel dicastero – oltre a questioni fondamentali per la sicurezza dello Stato – passa pure l’organizzazione e l’ultima parola sulle date per le elezioni, soprattutto quelle anticipate, via d’uscita a un governo di larghe intese sempre più fragile. L’espulsione di Anna Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Ablyazov, non ha fatto altro che infiammare ancora di più gli animi di una schiera di prefetti e poliziotti già da tempo intenti a scannarsi su promozioni, incarichi e ruoli nella delicata macchina che gestisce la sicurezza in Italia.
Non solo. In questi giorni, per le segrete stanze, c’è chi va rispolverando il libro che Paolo Madron ha scritto insieme con Luigi Bisignani, il gran faccendiere, che ne l’Uomo che sussurrava ai potenti dedica spazio al giovane Alfano. E lo mette in cattiva luce, ricordando che già nel 2012, in piena guerra con Silvio Berlusconi, da segretario di partito non dedicava molto tempo al lavoro.
Anzi, racconta il faccendiere allievo di Giulio Andreotti, Alfano «se ne stava chiuso nel suo ufficio bunker in via dell’Umiltà, dove per chiunque era impossibile entrare. Passava più tempo con i giornalisti, su Facebook e Twitter che con i parlamentari e con la base del partito e gli esponenti del mondo imprenditoriale, bancario e culturale che pure avevano desiderio di conoscerlo. Inoltre Alfano ha una vera mania per i giochini sul cellulare, cui non rinuncia nemmeno durante le riunioni. E poi ha la debolezza di consultare sempre l’oroscopo e di regolare le giornate in base a quel che c’è scritto…». Frecciate “poliziesche” per dire che il ministro dell’Interno a stare in ufficio ci pensa poco?
«Era evidente che Alfano non si sarebbe dimesso, almeno per ilmomento» spiegano da Montecitorio ricordando la delicatezza del ruolo che ricopre il segretario del Popolo della Libertà. Non è un caso che in questi giorni – dove a tenere banco sono state le responsabilità del capo di gabinetto Giuseppe Procaccini, poi dimesso – a intervenire sulla «guerra» del Viminale sia arrivato l’ex ministro nonchè predecessore Roberto Maroni che ha chiamato Alfano più volte nell’ultime ventiquattro ore. Bobo è stato per tre anni a capo degli Interni, conosce ogni angolo di quel palazzo che alcuni leghisti paragonano ancora oggi scherzando alla Lubjanka (sede dei servizi segreti russi ndr).
Dopo le critiche di ieri («Non faccio valutazioni, dico solo, da ex ministro dell’Interno, che casi del genere erano gestiti dalla struttura con il coinvolgimento di tutti e anche ovviamente del ministro»), il segretario leghista ha raddrizzato il tiro con una telefonata «molto cordiale» ad Alfano. Allo stesso tempo c’è pure il ministro di Grazia e Giustizia Anna Maria Cancellieri, ex prefetto, a moderare i toni sul Viminale, difendendo l’operato degli incaricati sul cortocircuito di informazioni tra dipartimenti sul caso Ablyazov.
Si mormora che proprio Maroni e la Cancellieri stiano mediando all’interno delpalazzo, cercando di sedare gli animi di chi da anni chiede spazio o incarichi più prestigiosi nei vari dipartimenti. È una battaglia che ha già avuto ripercussioni nella Polizia di Stato dove quando c’era Antonio Manganelli i prefetti, si vocifera, «non toccavano palla» al Dipartimento di Pubblica Sicurezza. E dove per quasi tre mesi la poltrona numero uno è rimasta vacante, con il vice capo vicario Alessandro Marangoni a tenere le fila pure sul caso Kazakistan. Poi è arrivato Alessandro Pansa, già prefetto pure lui, nel giro dei De Gennaro boys, quella schiera di «sbirri» nati e cresciuti all’ombra dell’attuale presidente di Finmeccanica.
La polveriera, però, rischia di aumentare in vista degli scossoni che da qui ai prossimi mesi potrebbero arrivare dopo la riorganizzazione di polizia e appunto del ministero. L’addio di Giuseppe Procaccini a capo di Gabinetto da cinque anni, non è stato indolore e lascia uno strascico di polemiche lungo un chilometro dopo l’espulsione della Shalabayeva. Di certo il nodo più semplice da sciogliere è quello di Alessandro Valeri, capo segreteria del Dipartimento di Polizia, ormai prossimo alla pensione, ma che sarà avvicendato a giorni. Valeri è uno che conta nei corridoi dei palazzi della sicurezza italiana, dove bazzica da quasi 40 anni. È persona stimata e integerrima, che potrebbe essere sostituita da Vincenzo Panico, attuale prefetto di Reggio Calabria, già collega a Napoli di Pansa.
Al posto di Procaccini, invece, potrebbe arrivare una donna, il capo dipartimento per le politiche del personale, il prefetto Luciana Lamorgese. A rischio invece c’è Marangoni, già citato nella relazione Pansa sull’espulsione della Shalabayeva: per lui si parla in un posto da prefetto a Torino o a Palermo. Non solo. Traballa pure il vice capo Francesco Cirillo, uomo di Manganelli, che potrebbe essere sostituito da Santi Giuffrè, attuale direttore delle Specialità (Stradale, Postale e ferroviaria). Gli scossoni creano scompiglio a livelli più o meno alti.
A non essere toccato invece dovrebbe essere Maurizio Improta, il dirigente dell’ufficio immigrazione della Questura di Roma, altro funzionario decisivo nell’espulsione della Shalabayeva, che nelle prossime settimane, infatti, dovrebbe frequentare il corso interforze di alta formazione per dirigente superiore. Fanno sapere dal Sindacato e dall’associazione dei Prefetti (Sinpref e Ap) come «inquieta la gogna mediatica cui sono sottoposti i presunti principali ‘indiziati’ dell’accaduto». Che il caso Shalabayeva sia stato utile a qualcuno anche per far carriera?