Non è semplice apprezzare i confini della vicenda scoperchiata da Edward Snowden con le sue rivelazioni: troppi profili differenti vi si accavallano – privacy, sicurezza, governance della rete – e troppi interessi contrapposti operano per orientarne la narrazione. Tralasciamo questi aspetti e concentriamoci, invece, sulla reazione delle istituzioni europee.
Alle blande rimostranze iniziali si sono sostituite, negli ultimi giorni, prese di posizione ben più incisive: la consapevolezza che il controllo dell’intelligence statunitense si estende a sedi diplomatiche e uffici governativi ha determinato un evidente salto qualitativo, quasi ad implicare che sia ammissibile, per un governo, spiare milioni di individui, ma non spiare altri governi. Un punto di vista, questo, non privo di una certa coerenza, ove si rammenti che – a dispetto della retorica dominante – l’interesse della classe politica e l’interesse generale raramente coincidono.
È ben possibile che all’irritazione rumorosa degli organismi comunitari e di quelli nazionali contribuisca una sorta di gioco delle parti volto a salvaguardare l’apparenza di una relazione paritaria con Washington – sebbene lo spionaggio (anche) a carico di paesi “amici”, lungi dal rappresentare un’offesa eccezionale, rientri a pieno titolo nella mission dei servizi segreti.
Tuttavia, tale reazione potrebbe avere conseguenze profondamente dannose se – come ipotizzato, per esempio, dal governo francese – dovesse riverberarsi sul buon andamento delle trattative per la definizione della Transatlantic Trade and Investment Partnership, l’atteso accordo di libero scambio tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea che – stando alle stime della Commissione – garantirebbe ogni anno 187 miliardi di euro di maggiori ricavi per le aziende del vecchio continente.
Vediamo qui all’opera, nuovamente, la divaricazione tra l’interesse generale – che privilegerebbe senza tentennamenti i benefici economici del trattato – e l’interesse della classe politica all’autoconservazione. Occorre, però, tenere presente un ulteriore elemento di matrice culturale: l’incomprensione del fenomeno della libertà di commercio, tuttora percepita come una concessione alla controparte – in quanto tale, condizionata alla sua buona condotta.
Questa logica mercantilistica trascura non solo i vantaggi per le imprese, i cui prodotti trovano sbocco su mercati più ampi, ma anche quelli per i consumatori, che registrano accresciute possibilità di scelta e prezzi più allettanti. Sarebbe miope e autolesionista pregiudicare la liberalizzazione dei traffici a causa del pur legittimo risentimento che le notizie degli ultimi giorni hanno destato. Al contrario, non esiste medicina migliore del commercio per normalizzare i rapporti tra le nazioni. Questo suggeriva Bastiat quando rilevava che, laddove le merci passano i confini, non lo fanno gli eserciti: aggiornando la portata della riflessione, possiamo ritenere che lo stesso valga per le cimici.
*Editoriale pubblicato sul sito www.brunoleoni.it