Dsm-5, critica del nuovo manuale dei disturbi mentali

«Se sono matto, per me va benissimo»

“Se sono matto, per me va benissimo”. Ci vuole un certo ottimismo, un po’ da secolo americano, a dichiararsi così, al debutto di un romanzo. Parla Moses E. Herzog, capolavoro di se stesso e protagonista del primo successo letterario e mondiale di Saul Bellow: Herzog (cognome tedesco – vuol dire “duca” – e titolo del libro).

Herzog dice “matto”, all’antica, non “psicotico”, o “bipolare”. Se ne frega di specializzarsi nella sofferenza, anzi non si addolora, infatti precisa, sintetico, che gli “va benissimo”. Fraterno e incoraggiante, ci può fare da specchio parlante, un po’ come come quello della strega di Biancaneve: se siamo, o ci sentiamo, i più matti del reame, godiamocela. Eccezionali, e normalmente matti. Ma quanto lo siamo veramente, e a quali sprazzi della giornata, e con quanta fantasia nell’essere conseguenti? Herzog, nella sua chiarezza, non ha tenuto conto che il secolo americano che l’ha prodotto (come matto autocertificato) è anche un secolo altamente tecnico, che ha bisogno di fattispecie catalogabili, e di sapere come una specie (in questo caso, un disease) si evolva, o come ne nascano altre, a seconda dei cambiamenti della società, delle sue deflagrazioni, o semplicemente della sua specializzata complessità. Dire “sono stanco” al proprio datore di lavoro non produce, in genere, nessuna giornata di libertà, ma con un certificato medico di “esaurimento” attestato, crescono le possibilità di ascolto. Più in generale, dire “matto da manuale” rasenta oggi il dialetto del senso comune, e il povero Herzog, già quando nasceva il libro, nel 1964, era destinato a restare nella sua più o meno alienata soddisfazione letteraria (nel romanzo è lui stesso uno scrittore e un grafomane di lettere a persone vive e morte, che però non spedisce).

Era successo, una decina d’anni prima, nel 1952, che gli psichiatri americani della potente associazione di categoria – l’Apa – avessero messo al mondo, come un trattato di botanica o una bozza da enciclopedisti ancien régime, il Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), cioè il primo manuale che catalogava tutte le “malattie mentali” accertate. Recensite, classificate, descritte: la schizofrenia, la depressione, l’anoressia mentale, i disturbi della personalità, il borderline, eccetera. Termini che ormai circolano nel parlare quotidiano, anche sfregiati dalla moda e spesso fuori dal loro significato tecnico: quello è un “border”, quell’altro è “schizzato”, o “schizo”, quell’altro, o quell’altra, ha un carattere “bulimico”, e via di seguito. Mentre il vecchio appellativo “pazzo” si è ridotto alla sommaria descrizione di opposti: dall’indicare un tono di voce fuori misura, allo spiegare perché Adolf Hitler abbia sterminato milioni di persone. Gli psichiatri del Dsm sono stati, e sono, ovviamente più precisi della lingua malparlata, e aggiornati: dal 1952 al 2013 sono state pubblicate cinque versioni, sempre più nutrite, del manuale. L’ultima versione ufficiale, la numero 5, è stata presentata a San Francisco nel maggio scorso, quindi è aggiornatissima. Si ipotizzavano molte modifiche o aggiunte, ne sono state redatte meno del previsto. Ma i nomi delle nuove etichette diagnostiche, e i criteri per piazzarle infra moenia sono degni della massima attenzione.

Senza troppo angosciare chi legge questa breve sintesi (occhio agli autoriconoscimenti in una sindrome, anche se fanno compagnia) ecco qualche esempio delle novità catalogate. C’è la sillogomania, in inglese “hoarding”: sarebbe l’accumulazione compulsiva di cose inutili. C’è l’iperfagia incontrollata, o “binge eating disorder”, c’è la dermatillomania (quando ci si gratta in continuazione), c’è la “dysregulation” dell’umore, più precisamente “dysruptive mood dysregulation disorder”. È stata creata e formulata, in particolare, per curare l’“irritabilità cronica” dei bambini con più di sei anni che manifestino tre accessi di collera alla settimana per oltre un anno. Incuriosisce, come minimo, l’abbassamento della “soglia clinica” stabilita per certe categorie. Come la depressione (il “male oscuro” della letteratura): prima del Dsm 5, ci volevano due mesi di “lutto”, o poco meno, per entrare nel circuito e nelle cure antipressive, oggi bastano 15 giorni (veramente pochi) per essere diagnosticati, inquadrati, e prescritti di farmaci ad hoc. Non c’è tanto bisogno di prendere di petto la logica del mercato, per capire come mai quei 15 giorni da manuale abbiano prodotto un consistente aumento delle diagnosi da depressione, con parallelo consumo di antidepressivi, e conseguenti guadagni delle case farmaceutiche. Infine, una novità sociale, e molto relativamente socievole: la transessualità non viene più classificata come “disturbo dell’identità sessuale”, ma come “disforia di genere”. In parole non povere, un’incompatibilità “marcata” fra il proprio vissuto e il sesso “assegnato”.

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Come milioni di pazienti – ognuno con una propria biografia e un proprio “disagio” variamente catalogato – anche i vari Dsm hanno avuto personalità diverse: non solo per l’incrocio fra criteri qualitativi e accumulo quantitativo di voci, ma per lo spirito con cui sono stati redatti. È strano come in pieno Sessantotto americano, il Dsm 2, pubblicato proprio in quell’anno, sia risultato poco più che un elenco destinato a usi amministrativi. Mentre il suo successore, il Dsm 3, del 1980, ispirato da Robert Spitzer – uno dei più bravi e anticonformisti psichiatri del secolo scorso – introduceva criteri diversi: di comportamento, emozionali, sociali. Quindi più attenzione al quadro, e anche a minimi sintomi per entrare in una categoria e in cure conseguenti: un approccio quantitativo, ma non rigido. Sostanzialmente diverso dalle successive edizioni, sovraintese da due altri nomi massimi della psichiatria come Allen Frances e David Kupfer. Il primo, considerato più conservatore, il secondo più incline alle novità delle neuroscienze. Due versioni del numero 4, e la prima del numero 5, sono state criticamente riassunte in questo modo: “Assicurando una certa stabilità nella classificazione, hanno anche promosso la perpetuazione degli errori”. Da leggere anche con un sottotesto: a chi conveniva quella stabilità indifferente alle cantonate? Bisogna dire che la redazione del Dsm 5 ha riunito 160 esperti che litigavano sulla fumata bianca come un conclave di cardinali: con dimissioni a catena dentro il gruppo di lavoro, “sospetti di collusione con le industrie farmaceutiche, e attacchi esterni”. In sintesi, una malandata credibilità del progetto. Va anche precisato che Allen Frances sarebbe passato all’opposizione senza mezzi termini.

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Frances ha infatti presto liquidato il Dsm 5 del 2013 così: “Fa in modo che milioni e milioni di persone attualmente considerate normali, siano diagnosticate con un disturbo mentale, e ricevano un trattamento e una stigmatizzazione di cui non hanno nessun bisogno”. Il suo ultimo libro si chiama Saving Normal, è pieno di domande supreme e di risposte drastiche. Le statistiche possono aiutarci a distinguere il normale dall’anormale? No. E la teoria evoluzionista e le neuroscienze? Nemmeno. E la psicoanalisi, cioè il massimo dell’antiscorciatoia? Neanche lei. E allora? Frances va giù spianato: “Non esiste una definizione per una malattia mentale, che va concepita a partire da ogni sofferenza individuale”. Dice “individuale”. Invita, neanche tanto indirettamente, ad avere un guizzo di riconoscenza (soprattutto nelle prime diagnosi) verso la singolarità di ognuno di noi. Questo scatto ce l’hanno certi “medici pragmatisti” per i quali la “malattia è semplicemente quello che loro curano?”. In linea di massima, no. Hugo von Hofmannsthal – una voce letteraria – sintetizzerebbe: “Per riconoscere la diversità, è necessario un attimo illuminato”. O potrebbe addirittura indicare quei “falsi concetti che producono uno stranissimo contatto fra il reale e l’irreale”. Al pubblico italiano Allen Frances ha detto ulteriormente cosa pensa del soggetto, in una bella intervista con Francesco Rigatelli (su La Stampa, del 19 ottobre 2011): “L’aumentare dei disturbi viene dalla modifica delle etichette […]. La vita non è mai stata facile! Le etichette e il modo in cui vengono usate può invece mutare velocemente. Il marketing aggressivo delle case farmaceutiche vende l’idea che le persone sono malate per incoraggiare l’uso di medicine. Queste ultime possono essere cruciali per persone con disturbi definiti e compromettenti, ma controindicate per coloro per cui il tempo e la psicoterapia sono sufficienti e più sani […]. Tra le ultime mode dei disturbi ci sono il deficit d’attenzione, il bipolarismo infantile, l’autismo. Le cure più abusate per queste sindromi, sono antipsicotici atipici dai possibili effetti collaterali”. Conclusione: “La psichiatria è meravigliosa quando si gode i suoi limiti”.

A questo punto, povero Dsm 5: con il suo ordine, i suoi aggiornamenti senza limiti, e i suoi demiurghi litigiosi. La materia del contendere resta centrale: perché gonfiare “la sfera del patologico”, e che cosa comporta farlo? Fuori dal giro della psichiatria americana, gli europei, i francesi in particolare, sono critici, ma con un certo esprit de finesse. Lo psicoanalista Patrick Landman ha fondato un collettivo che si chiama letteralmente “Stop Dsm 5”. E parla – molto e ai media – in questi termini: “Se applicassi i criteri del Dsm 5, dovrei dire che il cento per cento dei miei pazienti sono malati mentali. In realtà, solo il dieci per cento di chi viene nel mio studio soffre di un disagio certo e accertabile”. Landman è lapidario: “La medicina tradizionale scopre le malattie, il Dsm le inventa”. Se gli si chiedesse, di nuovo, quale sia la soglia fra l’essere normali e il non esserlo, lui avrebbe, immediata, la risposta: “Non si può lasciare che il patologico invada tutta la sfera nel nostro vivere, ogni giorno. Il Dsm lo fa. Siamo al trionfo del sintomo, e alla morte del soggetto con la sua storia personale e singolare. E siamo, di conseguenza, alla sovraprescrizione di farmaci. E quindi alla psichiatrizzazione rampante della società. A tutte queste cose dico no!”. Poi – non da Landman, ma da altri – arriva qualche riconoscimento di merito allo sbatacchiato manuale. Steevens Demazeux, filosofo della scienza e autore del libro Qu’est-ce que le Dsm? (editore Ithaque, aprile 2013) ricorda che già nel Dsm 2 – quello del Sessantotto, e un po’ scipito – l’omosessualità era stata finalmente depennata dalla classifica. E questo, “contro il parere di molti psicoanalisti” (mica male immaginare un corposo gruppo di preposti alla comprensione che, nel periodo pioniere dell’amore liberato, si intignano a voler piazzare gay e lesbiche in una categoria da curare). E, sempre in Francia, qualche esperto ha fatto notare come una classificazione accertata di disagio, con eventuale certificato medico, possa servire alla causa dei diritti dell’uomo. Fra cui quello di non essere sfiancato sul lavoro. Torna l’esempio iniziale di chi chiede una pausa al proprio datore d’impiego: se dice “sono stanco”, non ottiene niente, se schiaffa sulla scrivania un foglio di attestazione scientificamente formulata, dovrebbe avere più chance di farcela. In quanto portatore momentaneo di una propria “singolarità” conseguente al fatto di essere normalmente sfinito. O spremuto fuori normale misura.

Questo breve racconto – sul Dsm e noi dentro, fuori, o in frontiera – potrebbe essere sospeso qui, in attesa di aggiornamenti, se non ci si mettesse di mezzo un’altra domanda. Normale e suprema: quanto e perché ci “va benissimo” essere matti? Rispunta il vecchio Herzog. Entrando nell’inchiesta attraverso una cosa che viene in genere chiamata “la domanda sociale” del paziente (più o meno consapevole). Torniamo in Francia, al già citato esprit de finesse, e a come lo psichiatra Maurice Corcos (un bravissimo specializzato nell’infanzia/adolescenza) smaschera, con infinita compassione, “l’uomo secondo il Dsm”. L’homme selon le Dsm è proprio il titolo del suo libro sul tema. Dice Corcos: “Certi pazienti, cercando un’immagine di loro stessi capace di dire chi siano, tendono ad accettare molto facilmente le etichette diagnostiche. Una sorta di identità di compensazione. Se poi quella sofferenza può permettere loro un riscontro mediatico (“l’ho visto anche alla tv!”), diventa più facile accettare di essere prigionieri di quell’immagine”. Per la cronaca, la già citata sillogomania è diventata una sindrome popolare in America, grazie al serial televisivo Hoarding: Buried Alive, diffuso dalla rete Tlc, e in Italia trasmesso, con il titolo Sepolti vivi dal canale Real Time. Una quantità di sepolti vivi nelle loro cose, piazzati davanti allo schermo a rivedersi negli inferni di altre case oberate di cianfrusaglie, di tutto… In sintesi, anche i pazienti (tutti noi) premono. Per essere riconosciuti, e per riconoscersi. E così, è stato anche scritto, sempre dai francesi, di come il Dsm procuri un altro benefice de taille: diventare una “scusa”, oltre che un’identità in più. A latere, si può citare quello che un bravo psicoanalista belga raccontava (in privato e senza far nomi) di una sua bellissima paziente normalmente nevrotica. Alla fine di ogni seduta, sulla porta, lei gli chiedeva: “Dottore, è sicuro che io non sia psicotica?”. Risposta, ogni volta, “Ma no, no, stia tranquilla…”. Finché un giorno, alla domanda ancora reiterata, lui le dice, molto normalmente: “Le fa piacere che le dica che lei è psicotica?”. Risposta immediata: “Per amor di Dio, no!”. Ognuno legga la storiella (vera) come vuole. O come più gli assomiglia.

Infine, e per chiudere con la letteratura, dato che si è partiti col buon Herzog, un’immagine e una domanda: come potrebbe venire classificato nel Dsm 5 un tipo come Franz Tunda, l’eroe di Fuga senza fine (di Joseph Roth)? Lui e il libro, magnifico, finiscono così: «Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo».

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