I cinquant’anni de “La Ricotta” di Pier Paolo Pasolini

La rubrica Genio del Male

Se anche gli atei vogliono una Chiesa è veramente il caso di dire che non c’è più religione! Cinquant’anni fa (non) usciva nelle sale “La ricotta” di Pier Paolo Pasolini: dopo Tor Lupara di Mentana, al cinema Corso di Roma la proiezione venne infatti interrotta e la pellicola sequestrata con l’accusa di vilipendio alla “religione di stato”. Prima di tornare nelle sale – non prima di dicembre – la storia cui si potrà partecipare sarà solo quella andata in scena nelle aule del tribunale di Roma. Tutto previsto e coerente con un sistematico processo alla persona che, come illustra il libro di Benedetti e Giovannetti (“Frocio e basta”, Effigie edizioni), era funzionale ad un depistaggio culturale. Pasolini invece perseguiva la realtà, che significa la forza rivoluzionaria che porta con sè l’amore sincero per la tradizione.

La religione diventa allora la testimonianza di qualcosa di arcaico, di profondo che sta non non solo nella mente di Pasolini ma in duemila anni di cristianesimo. Chi intende vivere ancora in Europa deve tradurre il cristianesimo in patrimonio dell’umanità. In una parola: secolarizzarlo. La trasformazione dei concetti religiosi in ingredienti indipendenti dalla fede è un’operazione preziosissima per la sopravvivenza della civiltà. Sotto questo profilo ha ragione Massimo Raffaeli a dire che la terza pellicola di Pasolini è un “apologo metalinguistico” (Novecento italiano, Sossella Editore). Esprime il sogno di far parlare le cose, un sogno in cui il tableau vivant manierista è il riflesso critico, la parodia di una Italia sottoproletaria, profanata e fatta crepare di fame dalle tante cagnette dei miliardari. Non si deve fraintendere: Stracci è solo un attore che si traveste perfino da donna per cercare di guadagnare un cestino in più e sfamare se stesso, oltre che la propria famiglia. Ma non sostituisce il simbolo del sottoproletariato a quello di Cristo, evita soltanto che venga misticizzato cioè polverizzato da una “religione di stato”.

“La ricotta” possiede un’attualità schiacciante: perduto quel carattere osceno che poteva apparire ai censori neofascisti degli anni Sessanta, raccoglie oggi la verità di uno spettacolo che si consuma sotto la croce dei nuovi affamati, quella folla che quotidianamente pietisce un cestino dalla produzione del nuovo capitale. E ormai sono tanti quelli che, se potessero, divorerebbero subito la loro ricotta. Ma Stracci ha dovuto morire per dire che era vivo. Dove troviamo nel cinema tanta immediatezza, tanta schiettezza?

“La ricotta” è preziosa però anche per il risvolto giudiziario che accompagna sempre la comparsa dei simboli religiosi. I titoli di testa recitano: «la storia della Passione – che indirettamente “La ricotta” evoca – è per me la più grande che sia mai accaduta, e i Testi che la raccontano, i più sublimi che siano mai stati scritti». È per questo che tutte le religioni dovrebbero guardare come benedetta la progressiva secolarizzazione dei loro contenuti, perchè la loro capacità evocativa poggia sulla forza metalinguistica di una civiltà viva. Quella che sta rischiando di scomparire dietro la mistica della primavera araba per esempio, e che potrebbe lasciare morire altri Stracci sulle piazze del mondo islamico. 

Vengono alla mente le parole del filosofo algerino Hamid Zanaz che recentemente in “La sfida laica all’islam” (Elèuthera) si chiede: “Com’è che la storia è riuscita, in un certo senso, a spiritualizzare la religione di Cristo e despiritualizzare quella di Maometto?”. Questa è la domanda che ci riguarda direttamente, che attiene alla vitalità del nostro tempo in cui un’altra religione si potrebbe mangiare lo stato, come un cestino. Ma non è con un protocollo d’intesa con gli atei che risolveremo il trionfo delle “religioni di stato”. E non è neppure venerando Giordano Bruno nelle piazze d’Europa che manterremo unito l’asse Roma-Atene-Gerusalemme-Bisanzio. Custodiamoci quindi la nostra bella secolarizzazione e aiutiamo le altre religioni a fare altrettanto. 

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