ROMA – «In aula per voto procedurale. Presenza obbligatoria». Alle 13:16 si illumina il cellulare dei parlamentari del Pd. Un sms stravolge l’agenda dei deputati. Perché alle 13:30 c’è il voto sulla sospensione della seduta «per distendere il clima e consentire al gruppo del Pdl di stabilire la linea. Il diktat dei piani alti di Largo del Nazareno impone la presenza in aula. «Mentre stavo pranzando è arrivato sul mio cellulare questo messaggio – spiega un renziano – non avevo scelta: sono corso subito alla Camera».
Ed è proprio in quell’istante che le agitazioni si spostano dal Pdl al Pd. «Ci hanno colto di sorpresa, hanno giocato su questo fatto». La decisione è stata presa dal capogruppo Pd Roberto Speranza insieme al ministro dei rapporti con il Parlamento Dario Franceschini e al segretario Guglielmo Epifani. «Non c’è stata alcuna riunione di gruppo, nessuno ci ha interpellato», lamentano i malpancisti del partito. E così, in questo contesto si è svolto il voto sulla sospensione dei lavori d’aula per la seduta odierna. Con il grande lavoro dei filogovernativi, come Dario Franceschini e il gruppo dei lettiani, impegnati a stemperare i toni e a suggerire ai colleghi di turarsi il naso e votare. Il diktat avrebbe la funzione di stipulare la pace con il gruppo parlamentare del Pdl. Altrimenti, spiega un ex margherita, «qui si va tutti a casa».
Tutto qui? Macché. Uscendo dall’Aula il volto dei renziani è scurissimo. Maria Elena Boschi, considerata fra le fedelissime di Matteo Renzi, si affida a Facebook per diffondere il dissenso: «Sarebbe stato facile prendere le distanze oggi, ma ho votato come ci ha chiesto il gruppo per non lasciare soli gli altri colleghi. Questa conduzione del partito sta portando al suicidio politico e al blocco istituzionale». In realtà i malumori non riguardano soltanto il drappello di parlamentari vicini al primo cittadino di Firenze. Altri sono molto scontenti, come ad esempio Rosy Bindi, che, in occasione del voto, è uscita dall’aula. O come il veltroniano Paolo Gentiloni, che ha optato per il non voto. Fra gli altri dissidenti si annoverano anche il candidato alla segreteria Pippo Civati, e la prodiana Sandra Zampa. Mentre l’ex segretario Pier Luigi Bersani, a quanto sembra, «non è presente in Aula al momento del voto», ma si trova in Trasatlantico a chiacchierare con il tesoriere dei democratici Antonio Misiani.
Per tutto il pomeriggio la discussione interna al Pd occupa il dibattito nelle stanze di Montecitorio. Il segretario Epifani preferisce far slittare la commissione congressuale fissata per domani «alla luce della della situazione delicata che si è venuta a creare nelle ultime ore», recita una nota. «Ciò impedirà ancora una volta di conoscere le regole e la data del congresso», sbotta un fedelissimo di Matteo Renzi. «La forza di Letta è Matteo Renzi», mormorano. Perché «il Cavaliere non vuole tornare al voto contro Matteo, e i vertici del Pd non vogliono Matteo candidato premier». Insomma, secondo alcune voci, sarebbe proprio il cosiddetto patto di sindacato del Pd, Epifani-Franceschini-Letta, a non voler le urne e a stemperare i toni con i “falchi” del Pdl. E al patto di sindacato si sarebbero aggiunti anche i giovani turchi che non sono affatto scandalizzati dai sommovimenti odierni: «Cosa vuoi che siano tre e ore di mezza di sospensione dei lavori? Succede…».
Durante il question time scoppia la pace fra i vertici del Pd e quelli del Pdl, in particolare quando il capogruppo Renato Brunetta interviene in merito al pagamento dei debiti alla pubblica amministrazione, e addirittura elogia l’atteggiamento e le parole del premier: «Sono soddisfatto. Qui non stiamo parlando solo di soldi ma della riconciliazioni tra Stato e cittadini».
Insomma, allo stato attuale non sono i guai giudiziari di Silvio Berlusconi a intaccare la stabilità del governo. Sono le grane all’interno del Pd a preoccupare l’asse Letta-Franceschini. «È urgente che il gruppo si riunisca per capire se ci sono responsabilità e se i meccanismi decisionali sono efficaci oppure se debbano essere discussi», recita una nota di dieci parlamentari renziani. I quali non hanno intenzione di mollare la presa e ritengono che la decisione di oggi la si debba leggere in chiave «anti-Matteo». Affilano le armi in vista del vertice. Ma quando sarà? Non è dato sapere. Risulta evidente, spiega il bersaniano Alfredo D’Attore, che «sarà necessario nei prossimi giorni un chiarimento di fondo nel partito e nei gruppi parlamentari». Questa volta non sulle regole, o sulla data del congresso, ma sul sostegno al governo Letta.
@GiuseppeFalci