Modello tedesco: perché l’Italia si rifiuta di seguirlo

L’esempio di Berlino

Ocse ha presentato alcuni dati sull’occupazione giovanile in Europa. Il quadro è pessimo: 22 milioni di under 25 hanno smesso di studiare o di seguire corsi di formazione e non lavorano (Not in Employment, Education and Training). Per quanto riguarda l’Italia, dove i Neet sono il 21,5%, si evidenziano almeno tre criticità: più della metà di questi un lavoro neanche lo cerca; la disoccupazione giovanile (16-24 anni) è almeno 4 volte superiore a quella degli over 25; per tasso di disoccupazione di lunga durata siamo superiori anche a Grecia e Irlanda.

Come aggredire questa vera e propria emergenza? Una leva fondamentale dovrebbe essere il sistema di istruzione e formazione. Ma anche a questo proposito, Ocse sottolinea un dato allarmante: uno studente su cinque lascia la scuola senza disporre delle competenze necessarie nel mercato del lavoro. Peraltro, secondo numerose ricerche, la percezione da parte degli studenti dell’inutilità della formazione che stanno ricevendo è tra le ragioni principali dell’abbandono scolastico, altro dramma italiano.

L’Action Plan predisposto da Ocse indirizza i Paesi verso una sempre più stretta integrazione tra filiere formative e produttive. Un modello che funziona è quello della Germania, dove sono previste forme di alternanza studio/lavoro sia nell’istruzione secondaria che in quella terziaria e dove l’apprendistato non è considerato alla stregua dello sfruttamento minorile, ma anzi rappresenta uno dei pilastri di tutto il sistema.

La sinistra italiana fin qui si è rifiutata di sposare il modello tedesco perché ha il “limite” di colpire qualche interesse e di sfidare molti dei suoi tabù. La costringe a ridimensionare alcune rassicuranti certezze ideologiche e ad abbandonare l’impostazione gentiliana, che sottende un anacronistico primato dell’istruzione liceale. Per quel che riguarda l’apprendistato, rafforzarlo significherebbe anche scontrarsi con alcune rigidità dei sindacati e delle associazioni datoriali: i primi contrari a ridurne il costo, le seconde restie a farne un reale momento di formazione e non un modo come un altro per risparmiare sul monte salari.

Che non si possa più andare avanti così lo dicono i numeri richiamati in principio. E finalmente lo riconoscono in molti. Il ministro Carrozza, nel presentare le linee programmatiche del suo dicastero, ha detto chiaramente che “la cerniera studio/lavoro in Italia è molto carente, ma costituisce l’elemento decisivo per conseguire risultati visibili anche nel breve/medio termine nel campo dell’avviamento al lavoro qualificato”. Il ministro preannuncia quindi “misure di rafforzamento dell’istruzione tecnico professionale, anche a livello terziario e l’aumento dei percorsi di alternanza studio/lavoro, colmando progressivamente il divario tra domanda e offerta di lavoro per le professioni tecniche”.

Se si reperiranno effettivamente nuove risorse, piuttosto che assegnarle a pioggia (pratica altrettanto deprecabile dei tagli lineari di gelminiana memoria), perché non finalizzarle a questi obiettivi e ad una maggiore flessibilità curriculare, che consenta una più efficace collaborazione tra scuola e imprese?

Forse finalmente i tempi sono maturi per superare resistenze che vengono da lontano. Per la sinistra farlo equivale a riporre nel cassetto qualche rassicurante coperta di Linus. Ma significa anche contribuire a mettere le basi per ridurre la dispersione, favorire l’inserimento lavorativo dei giovani e una loro migliore qualificazione professionale. Il miglior investimento sul loro futuro e dunque sul nostro. Scusate se è poco.

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