È una questione di gusto più che di veri e propri numeri. Ma non ci sono dubbi che la birra artigianale sia uno dei trend del momento nel mondo del bere, superiore fatti i dovuti paragoni allo sviluppo dei vini autoctoni.
Fissiamo qualche paletto: per birra artigianale si intende quella non pastorizzata (quindi “cruda”), tendenzialmente non filtrata (quindi integra) e realizzata senza conservanti, Non esiste un disciplinare per la birra artigianale e non per forza va considerata in contrasto con quella industriale. Agostino Arioli, uno dei pionieri del movimento con il suo Birrificio Italiano – aperto nel 1996 a Lurago Marinone (Co) – è molto chiaro. «Non è questione di volumi né di qualità: ci sono ottime artigianali e ottime industriali, pessime artigianali e pessime industriali. La differenza che quelli come me utilizzano materia prime e tecnologie diverse ma soprattutto siamo artigiani nella testa, inventando e raffinando prodotti: oggi ho sedici etichette. A spingerci è una passione enorme per la birra».
Passione ma anche business: vero è che i microbirrifici artigianali costituiscono l’1% per cento della produzione nazionale (il che vuol dire 300mila ettolitri) e il 2-3% del valore (secondo Assobirra, siamo sui 60milioni di euro) ma la crescita delle birre speciali – importate ma soprattutto artigianali e italiane – viaggia tra il 10 e il 20% annuo. In un paio di anni arriveranno sicuramente a rappresentare metà del consumo che oggi è di 29 litri pro capite: sempre pochi rispetto ai 72 della media europea. Insomma, il gioco è serio: il pubblico italiano vuole la qualità e i 445 microbirrifici (solo in Lombardia ce ne sono 76) cercano di venire incontro alla richiesta: portano i loro prodotti nei pub, nei negozi specializzati, nei ristoranti. I più critici dicono che in verità ce ne saranno una trentina capaci di realizzare birre all’altezza della concorrenza straniera, i più gentili sottolineano che si tratta di realtà che impiegano due-tre persone con una produzione media di 400-450 ettolitri.
«Storicamente in Italia si producono soprattutto birre chiare: leggere, rinfrescanti e non particolarmente strutturate, che ancora oggi costituiscono il il 90% dei consumi interni e la quasi totalità delle esportazioni – spiega Filippo Terzaghi, direttore di AssoBirra – da qualche anno i birrifici artigianali stanno reinterpretando il prodotto “all’italiana” utilizzando ingredienti legati al territorio come castagne, farro, erbe aromatiche, spezie della macchia mediterranea. Da tre anni, la nostra casa è aperta anche a loro e non a caso ne abbiamo associati una trentina».
Tra questi c’è il “più grande dei piccoli” come spiega il fondatore Teo Musso: Birreria Baladin che arriva a 11mila ettolitri ed è quindi il numero uno di Unionbirrai, l’associazione che nel 2002 ha cercato di riunire i microbirrifici. Musso è il vero “guru” del settore: da un pub a Piozzo – mille anime in provincia di Cuneo – è arrivato a gestire un piccolo impero: produce birre famose in tutto il mondo (la blanche Isaac in primis), apre locali (come l’elegante open a Roma, in Campo de’ Fiori), potenzia quelli storici.
«Per fortuna ho tanti bravi collaboratori che mi consentono ancora di fare ricerca, pensare a nuove birre e girare per spiegare quanto sia valida una birra artigianale”. Il boom lo spiega così “Me l’aspettavo in parte, visto che la gente cerca sempre più la qualità e la nostra filosofia è questa sin dalle origini: ci siamo ispirati non casualmente al vino, io per primo sono di una terra dove si respira vino sin da bambini. Le mie prime birre sono state pensate solo per la ristorazione e i negozi specializzati: mi piace pensare che ci sono 3.700 ristoranti in Italia con una carta delle birre quando erano manco un centinaio quindici anni or sono. I momenti chiave? Tra il 2003 e il 2005, periodo in cui è esplosa la produzione, grazie a un centinaio di microbirrifici, e dal 2009 quando c’è stata la presa di coscienza generale del fenomeno. Ma sono certo che d’ora in poi ci sarà una maggior selezione del prodotto, con vantaggi e svantaggi per chi lavora nel settore, ma solo vantaggi per l’appassionato».
Musso si gode comunque il momento positivo. «Io e i miei colleghi abbiamo dato impulso all’intero comparto, cosa riconosciuta da Assobirra: quindi non ci sentiamo concorrenziali con l’industria, semmai si cerca di lavorare insieme. Il nostro obiettivo di microbirrifici dovrebbe essere uno spazio maggiore nei pub così da conquistare un target meno specializzato di quello attuale. Abbiamo i prodotti giusti, gli italiani producono birre all’altezza di quelle belghe, considerate il top, e quanto a fantasia non temiamo nessuno».
L’esperienza acquisita e i buoni risultati sul mercato internazionale (lo scorso anno, sono usciti dai nostri confini circa 15.000 mila ettolitri di birra artigianale) stanno spingendo verso una nuova sfida: la birra tutta italiana. Per inaugurare le attività dell’Associazione birra del Lazio – che riunisce microbirrifici e malterie della regione – è stata prodotta La Zia Ale (nome azzeccato) che ha un ingrediente “segreto” quale il gruyt, ossia una miscela di cicoria, rucola, erbe di campo e timo da utilizzare al posto del luppolo.
A Morimondo, cittadina della bassa milanese, si produce invece la Birra Agricola che va oltre il disciplinare ministeriale che assegna la qualifica solo a chi la realizza con un 60% minimo di materia prima coltivata in loco dall’azienda. Qui si arriva al 90% compreso il luppolo. «Sin dagli anni ’90 ho pensato a realizzare una filiera agricola per supportare i prodotti come la Birra Italiana – conclude Musso – e può essere un’ottima idea per tutti. Però non è un gioco semplice, bisogna saper fare i contadini e i birrai al tempo stesso». Oddio, se c’è un momento per tornare alla terra, quello attuale ci sembra perfetto.