Finita la crisi, l’Italia è pronta per il nuovo mondo?

Mappa economica post recessione

Più zero virgola qualcosa. La recessione è finita anche in Europa, ma la crescita non è ancora arrivata. Ci vorrà tempo e nessuno sa che forma prenderà lo sviluppo. Siamo davvero all’inizio di un nuovo ciclo? Oppure si tratta di un’illusione? La crisi lascia dietro di sé un cumulo di macerie. Come sempre. La distruzione viene raccontata giorno dopo giorno con minuzia spesso feroce. La creazione si vede poco e comunque non fa notizia nel circo mediatico. I vinti balzano davanti agli occhi, difficile identificare i vincitori in una fase di assestamento tutt’altro che conclusa. Finora ha compiuto passi avanti soprattutto il deleveraging, cioè lo smaltimento dei debiti privati e pubblici, premessa a una nuova fase di risparmio-investimenti-crescita. Eppure, sbirciando oltre il fumo statistico possiamo già vedere alcuni profili del nuovo (dis)ordine mondiale.

L’America del Nord sta uscendo forte e solida, forse più di prima, mentre l’Europa appare lacerata nelle sue dimensioni non solo economiche, ma politiche e culturali. Sembra paradossale, mentre negli Stati Uniti non si fa che discutere di debito pubblico eccessivo (sopra il 100 per cento), di tasse e tagli, di droga monetaria ed exit strategy e soprattuto di una crescita che, pur continua dal 2010 ad oggi, non supera il tetto cruciale del 3%. È vero, la disoccupazione sta scendendo, però nuovi posti di lavoro vengono creati a ritmi inferiori rispetto al passato. Bisogna precisare che difficilmente vedremo un boom come quello del quarto di secolo che ha preceduto la crisi. In ogni caso, il passo è troppo lento.

Le querelle di politica macroeconomica stanno offuscando mutamenti strutturali importanti, alcuni dei quali clamorosi. Innanzitutto, c’è il primato nel modo di produzione basato sull’informazione. Non si tratta solo dei new media, del web, del commercio online: il nuovo paradigma penetra l’industria e i servizi. Il prossimo balzo, già all’orizzonte, riguarda la finanza e le banche, un mestiere che in fondo si basa anch’esso sull’informazione. «La banca esiste come un ponte tra chi ha i soldi e chi ne ha bisogno, non sapendo niente l’uno dell’altro», dice Andy Haldane, cervello della Banca d’Inghilterra, secondo il quale siamo «all’apice di una grande rivoluzione industriale spinta dalle nuove tecnologie dal lato dell’offerta e dalla crisi finanziaria dal lato della domanda».

Cambiamenti altrettanto clamorosi avvengono nella old industry (anche se oggi la definizione è inappropriata). Lo sfruttamento su larga scala del gas e degli oli da scisti bituminose ha già prodotto una riduzione dei costi dell’energia negli Usa e in Canada, ma entro il prossimo decennio renderà questa parte del mondo esportatrice netta. Un mutamento negli equilibri non solo economici, ma geopolitici a scapito del Medio oriente e della Russia. Il ritorno della manifattura, la nuova rivoluzione industriale (si pensi alle tecnologie 3D), il peso della ricerca e dell’innovazione (fotografato dagli ultimi aggiornamenti statistici del Pil), il ruolo predominante nell’industria dell’intrattenimento, così strategica nei paesi avanzati e non solo (si pensi al ruolo di Bollywood e del cinema cinese). Insomma tutto ciò rende innegabile che il Nord America esce vincitore (e attenti anche all’Australia che trae vantaggio anche dalla sua collocazione strategica nei nuovi traffici mondiali).

La Cina stenta a entrare nell’“era dell’armonia” promessa nel decennio scorso da Hu Jintao. Certo, cresce a un buon ritmo, il 7% l’anno non è male anche se stiamo parlando di un paese il cui reddito pro capite resta di ottomila dollari (in parità di potere d’acquisto, quello italiano è pari a 30 mila dollari). Tuttavia buona parte delle sue risorse vanno concentrate nel consolidamento del mercato interno, la costruzione di un welfare state (non seguirà lo statalismo europeo, ma un modello misto), la riforma e l’ammodernamento delle banche e della finanza, la riduzione del divario tra la costa e l’interno, il riarmo.

Intanto, la forza lavoro invecchia e il passaggio a una nuova fase dell’accumulazione spinge in alto i salari aprendo nuovi conflitti sociali che possono diventare politici. Insomma, il decennio di Xi e Li sarà complesso, pieno di sfide e contraddizioni. La Cina dovrà seguire un suo percorso. Del resto, lo sviluppo non procede secondo un tracciato lineare. L’ultima (in ordine di tempo) delle grandi modernizzazioni offre anch’essa occasioni importanti, soprattutto alle imprese multinazionali che producono per il mercato interno e a chi sa offrire soluzioni sistemiche. Non più solo industria, la nuova frontiera cinese sarà nei servizi.

Parlare di Bric non ha senso, oggi meno che mai. L’India resta come sempre potenza mancata, il Brasile l’eterna grande promessa, la Russia è troppo dipendente dagli idrocarburi e ha bisogno di una colossale riconversione della quale il sistema di potere attuale sembra incapace, il Sud Africa continua a vivere nell’angoscia del dopo Mandela. L’Indonesia e il Vietnam sono emersi come soggetti rilevanti in Asia. Qua e là spuntano nuove realtà in Africa, però la guerra civile in Egitto è una mazzata su tutto il nord del continente. Se ne sono dette tante, da Cindia a Chimerica, ma il mondo è sempre più articolato e multipolare. Lo stesso vale per l’Europa.

Mentre la propaganda euroscettica continua a evocare il superstato dominato da una élite di burocrati lontani dai popoli, l’Unione europea si è divisa secondo faglie regionali o addirittura nazionali. La notizia della sua morte è largamente esagerata, soprattutto grazie alle contromisure di Mario Draghi, tuttavia la moneta unica non ha unificato i mercati. Le divisioni tra paesi (e aree economiche) in surplus e in deficit, tra avanguardie e retroguardie, tra sistemi economico-politici forti e deboli, esistevano anche nel 2001, ma da allora ad oggi sono aumentate; senza che venissero adottati meccanismi di compensazione non in termini assistenziali, ma di politiche economiche.

È inevitabile che gli investimenti si dirigano là dove c’è maggiore efficienza. La ristrutturazione richiede tempo. E una linea del rigore applicata ovunque allo stesso modo, senza tener conto che la crisi ha componenti diverse da paese a paese, ha aggravato i problemi e allontanato la soluzione. Il problema dell’Italia si chiama crescita e competitività. La Spagna ha puntato su un modello fragile e speculativo (banche più immobili). Il Portogallo ha un paradigma produttivo obsoleto, schiacciato dalla concorrenza asiatica. L’Irlanda è stata troppo dipendente da investimenti esteri attirati con una vera e propria svalutazione fiscale. La Grecia non ha solo imbrogliato i conti, ha continuato a illudersi di poter vivere di assistenza pubblica. L’austerità non risolve nessuno di questi problemi strutturali.

In Europa è emersa vincitrice la Germania che ha utilizzato e poi trascinato con sé il proprio Lebensraum, soprattutto l’Europa centrale ex comunista. I tedeschi hanno saputo perseguire l’interesse nazionale all’interno di una cornice transnazionale (la Ue e l’euro) che ha favorito il loro aggiustamento strutturale, soprattutto dal 2003 al 2005 (un euro meno forte del marco, più tempo per ridurre il disavanzo pubblico e ristrutturare il mercato del lavoro). Chapeau. Anche se andrebbe meglio analizzato il ruolo non solo della riforma Hartz, ma del decentramento all’est e della deflazione salariale, nell’aumento dei profitti e della competitività industriale.

I paesi del nord hanno avuto esiti alterni. La Svezia ha tratto vantaggio dal grande recupero tedesco dal 2010 al 2012, ma la sua economia totalmente trascinata dalle esportazioni e con un mercato interno piccolo e stagnante, da un anno è entrata in sofferenza. Nell’ultimo trimestre il Pil è stato addirittura negativo sia pur di poco (-0,3%). Il bilancio pubblico è in pareggio, la bilancia dei pagamenti in attivo, la corona gestita con abilità (meno forte dei vicini danesi e della sterlina, più dell’euro). Dunque, tutti i crismi della ortodossia sono stati rispettati. Ma non è bastato.

In difficoltà è anche l’Olanda, altro paese virtuoso dal lato del bilancio pubblico che non esitava a impartire lezioni a tutti. Ma le sue pubbliche virtù coprivano tanti vizi privati: non la droga libera nei caffè di Amsterdam, ma la speculazione immobiliare. Nei Paesi Bassi la bolla è scoppiata, sia pur con un certo ritardo, e adesso sono guai. La Finlandia, altra maestrina del rigore, è entrata in recessione alla fine dello scorso anno. Il suo problema di fondo resta liberarsi dalla Nokia-dipendenza, un percorso che ha imboccato da tempo, ma che si rivela ancora accidentato.

La Gran Bretagna è tra color che son sospesi. La svolta conservatrice che aveva fatto tanto sperare la City e il mondo degli affari ha dato magri risultati. David Cameron deve ringraziare la Banca d’Inghilterra se le cose non vanno peggio. E adesso il nuovo governatore, il canadese Mark Carney, ha introdotto una linea più americana, scegliendo la disoccupazione come punto di riferimento, alla stregua della Federal Reserve.

La Francia dipende in tutto e per tutto dalla Germania. L’economia transalpina langue, non cade. Ma l’aggiustamento fiscale non è ancora avvenuto. Parigi ha ottenuto ancora una volta un trattamento privilegiato (forse perché è una potenza nucleare, sia pur piccola?). Ma i contribuenti cominceranno a tirare la cinghia e questo peserà anche sui suoi punti di forza: le grandi imprese pubbliche e le grandi banche.

L’Italia è il paese che ha fatto meglio negli ultimi anni, subito dopo la Germania. Sia sul piano dei conti pubblici sia per quel che riguarda le esportazioni nei paesi fuori dall’area euro (una grande leva per l’industria tedesca come per quella italiana). Il suo modello produttivo non è cambiato, ma è diventato più sofisticato: proprio i dati sull’export dimostrano che ha fatto un passo avanti nella scala del valore.

Tuttavia, l’Italia soffre più degli altri. La grande impresa privata si sta estinguendo e ciò crea un problema sistemico. Durissima è stata la stretta fiscale. Violenta anche la ristrutturazione industriale. Mentre l’austerità ha reso più difficile mettere mano all’enorme debolezza della quale soffre il paese, quella che ne comprime la competitività: i servizi pubblici e privati. Si pensi a quanto è importante per la Germania il ruolo di Deutsche Post, diventata un gigante mondiale della logistica, o quanto contano per la Francia le ferrovie ad alta velocità. Nel terziario dovrebbe avvenire una riconversione ancor più grande, profonda e dolorosa di quella che ha attraversato le imprese manifatturiere. Nessuno, però, ha il coraggio di proporlo (persino le liberalizzazioni sono finite nel dimenticatoio). Mentre i banchieri, baluardo di ogni conservazione, anziché ragionare come Haldane, chiedono sostegni fiscali.

Certo, le tasse sono troppo alte, la pubblica amministrazione è una palla al piede, come l’evasione fiscale e la criminalità. Ma siamo tutti stufi di sentir recitare le solite giaculatorie: rimbocchiamoci le maniche, non c’è più trippa per gatti. 

Twitter: @scingolo

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