Foresta rossa, una mostra racconta le città abbandonate

Velasco Vitali alla Triennale di Milano

Come Sarah in fuga da Sodoma si volta a guardare la città in fiamme, così gli abitanti di Chernobyl si voltano a guardare l’esplosione del reattore nucleare e vedono gli alberi tingersi di rosso. È una visione abbagliante, meravigliosa, la chiamano «Foresta Rossa». Forse i miti nascono per consolarsi, per trasfigurare in modo poetico un dramma che altrimenti non si potrebbe sopportare. Il rimpianto di Sarah è colpevole agli occhi di Javeh, che nella sua collera la punisce trasformandola in una statua di sale; Abramo, Isacco e il popolo di Israele si salveranno. Invece molti degli innocenti cittadini di Chernobyl moriranno per le radiazioni, gli altri si ammaleranno e così i loro figli.

La Storia, quella vera, è peggio di una maledizione biblica.
Dalla visione degli abitanti di Chernobyl prende il nome la mostra Foresta Rossa – 416 città fantasma nel mondo, alla Triennale di Milano, inaugurata il 17 luglio e che chiude 1 settembre 2013, (catalogo Skira). Un peccato che una mostra così bella che avrebbe potuto interessare un vasto pubblico sia aperta solo in estate quando tutti sono via. Quelle che rappresenta Velasco Vitali e che ci racconta Francesco Clerici sono città reali distrutte da terremoti, inondazioni, guerre o semplicemente abbandonate dagli uomini perché non servivano più allo scopo per cui erano state costruite.

Non resta più nulla di Pripjiat, la bella città che era stata costruita per i lavoratori della centrale nucleare, neanche il suo nome ricordiamo. La chiamavano «la città fiorita» per le sue aiole dappertutto; la sua urbanistica, le scuole, il teatro, il cinema, la piscina coperta, la qualità della vita erano da modello per tutta l’Unione Sovietica. Per ricordarla,Velasco non dipinge quella tragica e fantastica Foresta Rossa rimasta impressa negli occhi degli abitanti in fuga, ma – su una tela bianco sporco – traccia un cerchio rosso con intorno dei segni come di calligrafia cinese, è il calcinculo con le seggioline che girano del parco giochi dei bambini. La scelta di dipingere un’immagine quasi astratta rende più intenso lo strazio, rispetto a una rappresentazione trucida di brandelli di carne e macerie.

Pripjat, 2013, acrilico su tela

Un’enorme tela slabbrata (315 x 170 cm) con scale che non portano a niente come quelle di Escher, racconta di Hashima. In un prezioso, magico gioco di trasparenze, di rosa e grigi cangianti, le scale sbucano dappertutto, da botole, tetti e finestre, una scala esce dal quadro e si srotola davanti a noi quasi a trascinarci dentro a quel fantastico labirinto. Intorno al 1890, Hashima, un’isoletta vicino a Nagasaki, era stata comprata dalla Mitsubishi, all’epoca una media azienda di costruzioni navali, per sfruttarne gli immensi giacimenti sottomarini di carbone. Nonostante fosse squassata dai tifoni e inaccessibile per centosessanta giorni all’anno, in breve la popolazione crebbe, tanto che nel 1916 venne costruito il primo enorme edificio di cemento a nove piani di tutto il Giappone e negli anni successivi ogni metro quadrato venne sfruttato con case sempre più alte, specie di colonne architettoniche di tutti gli stili, incastonate le une nelle altre e collegate da scale. Fino agli anni sessanta era la città più popolata del mondo, poi l’estrazione del carbone non divenne più redditizia e fu soppiantato dal petrolio come principale fonte energetica. A poco a poco Hashima venne abbandonata; oggi è diventata il set ideale per film alla Blade Runner o per documentari tipo History Channel sul degrado degli edifici in cemento armato.

San Zhi, 2013, olio su tela

Sembra proprio uno scenario di fantascienza con l’invasione di astronavi aliene San Zhi, costruita nel 1978 a nord di Taipei. Il governo di Taiwan voleva farne un villaggio-vacanze di lusso per i militari americani in servizio nell’Est asiatico e un delirante architetto ebbe la geniale trovata di costruire venti palazzine Ufo-formi per di più dipinte con accesi colori primari. Durante i lavori succedevano molti incidenti agli operai e cominciarono a circolare voci su una qualche oscura maledizione: le «case aliene», come le chiamavano gli abitanti dei villaggi vicini, dovevano essere state costruite su un cimitero e i fantasmi si stavano vendicando, oppure durante gli scavi era stato rotto un diabolico drago di porcellana cinese assetato di sangue. Comunque la crisi energetica degli anni ottanta interruppe il progetto e un’azienda produttrice di birra comprò gli Ufo. Oggi sono abbandonati e in rovina. Velasco li dipinge che vagano e svaniscono in un cielo denso di blu cangianti, di rosa, di bianchi, quasi che la materia spaziale li risucchiasse, restituendoli finalmente all’esplorazione dell’universo.

Kolmanskop, 2013, acrilico su tela

Kolmanskop, 2013, acrilico su tessuto

In una sequenza di disegni preparatori per il quadro, possiamo quasi seguire l’avanzare inesorabile della sabbia del deserto che invade e ricopre Kolmanskop, la città sorta agli inizi del ‘900 vicino a una miniera di diamanti e poi abbandonata. Era strana, i minatori tedeschi avevano ripreso l’architettura dei loro villaggi d’origine, c’era perfino un casinò, la attraversava il primo tram di tutta l’Africa e ci arrivava anche il treno. Poi negli anni cinquanta la miniera si era esaurita e tutti se n’erano andati. Nei disegni vediamo un succedersi di mucchi di sabbia sempre più grandi che ricoprono parte dei vani di una fuga di porte aperte sul vuoto. I colori sono grigi, beige, giallini, ma in primo piano e sullo fondo domina un nero-catrame di morte.
 

Gran Bassam, 2013, materiale vario su tela

Troviamo un inconsulto segno di vita in Gran-Bassam, l’ex-capitale della Costa d’Avorio: un palo di legno dipinto di biacca regge un canestro da basket su un campo di palme blu. L’hanno costruito alla belle e meglio i figli dei commercianti e degli artigiani che stanno tornando a vivere lì vicino attirati dal crescente flusso di turisti. Era stata fondata nel 1893 dai francesi, con una raffinata architettura coloniale, lussureggianti giardini tropicali, dopo solo tre anni era stata colpita da un’epidemia di febbre gialla e traffici e amministrazione vennero trasferiti nella nascente Abidjan. Un lento declino fino all’abbandono definitivo. Alla fine degli anni ottanta viene riscoperta come meta turistica, le spiagge sono incantevoli e gli artigiani locali cominciano a tornare a vivere intorno per restaurare le bellissime case coloniali in rovina.

Niente è in grado di simboleggiare la grandiosa ascesa e lo spettacolare declino di Detriot come il Michigan Central Station- Mcs. Inaugurato nel 1913, il complesso di quarantaseimila metri quadrati in stile Beaux-Arts comprende la stazione ferroviaria e una torre alta diciotto piani. Marmi policromi, colonne corinzie, mosaici, uno splendore fin eccessivo. Vi arrivavano centinaia di treni e migliaia di passeggeri ogni giorno, vi lavoravano tremila impiegati. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con lo sviluppo dell’industria automobilistica era più semplice e veloce percorrere la tratta Ditroit-Chicago in macchina, così la stazione non serviva quasi più. Si tentò di venderla, ma un complesso gigantesco e inconsulto non lo voleva nessuno. Oggi è in completo abbandono, ci si aggirano solo vandali e barboni. Il quadro di Velasco rappresenta il monumentale atrio con gli archi e le volte decorati a stucchi e rilievi in un collage di brandelli di tele; due strisce bianche – quelle di un’autostrada? – escono dall’atrio e portano lontano; in primo piano, le grigie silhouettes di qualche automobile, a simboleggiare l’incolpevole nemico che ne ha determinato il tracollo.

Michigan Central Station, 2012, materiale vario su tela

Di fronte a questi quadri, l’associazione più immediata è con Le Città Invisibili di Calvino, piuttosto che con la Torre di Babele, ma forse in Velasco più che una denuncia sociale o un monito alla hybris dell’umanità, quel che colpisce è la pregnanza storica, l’arte che sublima il reale. La poetica richiama Gli anelli di Saturno (Adelphi) di W. G. Sebald. Racconta di «un pellegrinaggio in Inghilterra», su cui si innestano ricordi di personaggi che hanno vissuto in quei luoghi, o che ne hanno parlato, oppure di eventi storici, economici, o semplicemente la memoria di come quei posti erano un tempo e come sono diventati oggi. Da queste, come tanti anelli concentrici, si sviluppano per associazione altre storie di uomini e mondi anche lontanissimi.

Quel che accomuna questo fluire di racconti e immagini è un senso di profonda malinconia per un passato che si è consumato, corrotto, per la bellezza perduta, ma mentre leggiamo queste pagine la meraviglia di un giardino esotico ormai abbandonato, i viaggi avventurosi di un marinaio salpato da quella costa, le ricerche di uno scienziato, riprendono vita sotto i nostri occhi e ci ammaliano. Proprio come Gli anelli di Saturno del titolo, che ci appaiono bellissimi, quasi una magia, eppure sono frutto di una catastrofe: consistono infatti in cristalli di ghiaccio e particelle di pulviscolo, frammenti di un’antica luna che, troppo vicina al pianeta, è stata distrutta dalle sue forze di marea.

«Good and evil we know, in the field of this / word grow up toghether almost inseparabily», sappiamo che male e bene crescono insieme pressoché inseparabili, il pensiero di John Milton è quasi la stella polare che orienta W. G. Sebald nel suo viaggiare a piedi nel Suffolk, all’estremo est dell’Inghilterra, con la speranza di sfuggire «al vuoto che si stava diffondendo in me». Fissa le immagini più emblematiche del suo percorso con una macchina fotografica, anziché su un blocco da disegno, come gli illustri viandanti del sette-ottocento, da Heine a Goethe, oppure inserisce nel testo riproduzioni di antiche stampe, quadri, oggetti, manoscritti, vecchie cartoline, che danno un senso di maggior realismo, di documentazione al suo racconto per certi versi visionario.

Il pellegrinaggio di Sebald tocca porti che un tempo erano floridi centri di pesca, oggi abbandonati per via dell’inquinamento del mare. Passa per Southwold, dove s’era imbarcato il giovane Conrad, allora marinaio in cerca d’avventure, che si trasformano nell’incubo della feroce colonizzazione dell’Africa, come racconta in Cuore di Tenebre. E ancora, a Blyth, è da un trenino turistico con un dragone sopra, commissionato dall’imperatore della Cina e mai ritirato, che comincia il racconto di splendori e miserie del lontano Oriente.