Che relazione c’è tra la domanda “Uno dei tuoi amici è un agente segreto sotto copertura?” e la serie televisiva Graceland, trasmessa dal canale satellitare americano USA Network? La risposta è semplice e risiede in questo articolo, pubblicato qualche settimana fa dal sito americano dell’Huffington Post: il pezzo, intitolato “Is one of your friends an undercover agent?”, pubblicizza, più o meno velatamente, il lancio del telefilm poliziesco sugli schermi d’America. Non in modo canonico, ma attraverso attraverso un contenuto slegato (almeno in apparenza) dall’oggetto della promozione pubblicitaria: una curiosa innografia che rivela i dieci segni inequivocabili dell’agente segreto.
Da pochi giorni, nella redazione del quotidiano diretto da Arianna Huffington c’è un ufficio formato soltanto da brand journalists, l’HuffPost Partner Studio. Qui lavorano giornalisti “prestati” alla creazione di contenuti pubblicitari che ricalchino taglio, forma e stile degli articoli classici del sito. L’antico modello dei pubbliredazionali, non certo una novità nel giornalismo, viene qui spinto verso nuove frontiere: gli articoli sponsorizzati sono sempre più accattivanti e sempre meno distinguibili dal resto del contenuto, ed è per questo che le aziende li preferiscono ai classici banner. I dati del Pew Research Center confermano la tendenza: nel 2011, questo tipo di pubblicità è cresciuto del 56,1 per cento; nel 2012, del 38,9.
Siamo nel campo del native advertising, la branca del marketing che veicola il prodotto attraverso il cosiddetto “contenuto sponsorizzato”. È un campo redditizio per gli editori e pericoloso per i giornali: qui è inciampato il The Atlantic a gennaio, quando un’intervista dai toni entusiastici al leader in pectore di Scientology, David Miscavige, si rivelò essere lautamente finanziata dalle casse della Chiesa stessa. Sbugiardato dai lettori e dai blog di settore, il giornale dovette fare dietrofront, depubblicando l’articolo dal proprio sito e chiedendo a James Fallows, una delle firme di punta del giornale, di fare pubblica ammenda. Qualsiasi limite etico, in quel caso, era stato ampiamente oltrepassato.
Tuttavia, benché senz’altro meno nobile e appagante rispetto a quello del giornalista tradizionale, il lavoro del brand journalist è comunque un’opportunità – e di questi tempi non è poco. Sono sempre di più, infatti, le aziende che cercano figure di questo tipo: quotidiani e giornali online, ovviamente, ma non solo. Anche le stesse compagnie si stanno dotando di piccole redazioni interne. Coca Cola, Samsung e Toyota ne sono un esempio. Tutte queste aziende, attraverso i loro brand journalists, producono contenuto originale da pubblicare su siti e canali specifici.
L’HuffPost Partner Studio, attivo da circa una settimana, si propone di perfezionare questo meccanismo. Se prima erano le aziende a selezionare il contenuto (ad esempio, Cysco Systems sponsorizzava sull’HP una sezione dedicata a digitale e tecnologia), e tutto veniva gestito in maniera più grossolana, da oggi un team selezionato ad hoc cercherà di sperimentare nuove forme di linguaggio e di connessione tra sponsor e lettori – siano esse video, articoli, fotogallery e infografiche. La parola chiave è “coinvolgimento”: se il pubblico che entra in contatto con il contenuto riesce ad apprezzarlo, senza che ciò mini la credibilità etica della testata, allora l’obiettivo è stato centrato.
Ovviamente, si aprono voragini di carattere etico. «Il brand journalism è una rovina per i giornali, una piaga diffusa in ogni nazione». Siddharth Varadarajan, direttore del quotidiano asiatico Hindu, non è certo uno dei più grandi fan di questo tipo di pubblicità “mascherata” da notizia. E non è l’unico. Perfino Google ha sollevato qualche problema di etica, minacciando di non includere più in Google News le notizie scritte e firmate dalle aziende. Se la crescita del brand journalism non si può arrestare, si può tentare comunque di contenerne gli effetti entro determinati limiti ponendo, prima che sia troppo tardi, dei paletti etici alla sua espansione.
Solo così si potrà unire, come spiegava Lewis DVorkin di Forbes in questo interessante articolo, la «mission of journalism» (informare, osservare, selezionare, interpretare) al «business of journalism»: fornire cioè agli sponsor nuovi modi di raggiungere i consumatori, nel tentativo di creare un modello di giornalismo sostenibile supportato dalla pubblicità, di cui possano beneficiarne tutti, «editori e giornalisti inclusi».
*Valerio Bassan è autore dell’ebook Tutta un’altra notizia. Spunti e strumenti per il giornalismo del domani (goWare, 2013)
Twitter @valeriobassan